Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, giugno 29, 2013

Conversazione con Riccardo Muti

Riccardo Muti (1941)
Incontro con Riccardo Muti, tornato a Ravenna per Pasqua. Una chiacchierata quattro giorni dopo il rientro da New York: Carnegie Hall, Chicago Symphony, concerti trionfali con venti minuti di standing ovations.

Nel colloquio Chicago è come la madeleine proustiana. Fa riandare l’interlocutore a remoti decenni statunitensi che dal passato volgono al presente. Ne nasce un gioco continuo di rimandi, sul filo del ricordo o della riflessione, fra USA e Italia, grande musica e grandi problemi della musica.
Negli anni settanta, quando iniziò la mia avventura americana, diressi numerose orchestre tra cui la Chicago, la Boston Symphony e la Philadelphia Orchestra. Con la Philadelphia fu amore forte e improvviso. Si sviluppò in una serie di concerti estivi. Un’intesa estiva, o meglio un violento atto d’amore; un legame durato dal 1972 al 1992 e coronato da una pubblicazione ad hoc e a ricordo («I venti anni di Riccardo Muti alla Philadelphia Orchestra»).
Dal 1976 Riccardo Muti fu direttore principale ospite – dopo il regno di Eugene Ormandy durato più di quaranta anni – e dal 1979 direttore musicale e artistico del complesso statunitense. Con un mare di dischi per la EMI – praticamente tutto il grande repertorio sinfonico – riversati su CD, raccolti in cofanetti, oggi allegati pure a riviste ed esposti festosamente in edicola.
Nell’86, quando fui nominato direttore musicale alla Scala, ritenni opportuno lasciare Filadelfia. Sarebbe stato troppo gravoso seguire seriamente due istituzioni: una basta e avanza.
Poi, quando lascia la Scala nel 2005, la libertà...
Mi sono trovato alla testa dei Wiener Philharmoniker e con oltre orchestre in tournée a New York e altrove. In giro, finalmente, senza preoccupazioni, dopo essere stato a lungo direttore stabile, con tutto il carico di impegni che questo comporta. Ho potuto insomma gustare la libera attività; assaporarla con i vantaggi che offre: tempo di cui puoi disporre come vuoi, senza appuntamenti fissi, senza attività amministrative sulle spalle. Insomma. Me ne andavo a dirigere a Salisburgo come a Vienna in santa pace. Potevo tornare a capo dei Filarmonici berlinesi con cui avevo avuto un rapporto strettissimo fino alla morte di Karajan. Non pensavo più a un «futuro americano» anche se dirigevo regolarmente negli USA oltre che per l’Europa. Mi accorsi però, negli spostamenti europei, che a Parigi e a Londra, ad esempio, veniva sistematicamente a farmi visita la presidente dell’orchestra di Chicago, Deborah Rutter. La Rutter mi chiese di dirigere concerti con la sua orchestra, anche di seguirla in una tournée. A dire il vero, non ne avevo molta voglia. Tra l’altro, per due volte mi ero trovato a declinare la proposta di direttore stabile della New York Philharmonic e la situazione diventava imbarazzante: no a New York, si a Chicago... mah? Mi pesava, poi, l’idea di ulteriori viaggi oltre Atlantico. Ancora. Non avevo più desiderio di incontrare nuove orchestre, visto che lo avevo fatto sempre: dagli anni di gavetta – quelli che non esistono più per i direttori d’oggi – ai decenni con i colossi del sinfonismo.
L’insistenza della Rutter ma anche Chicago, città sul lago Michigan di bellezza straordinaria, con una grande storia e nuove splendide architetture cresciute in questi ultimi anni, con Enrico Fermi, cui è dedicata parte dell’Università, che lì compì il primo esperimento nucleare. Chicago ovvero la svolta.
Infatti. Dopo trent’anni anni di vincoli, mentre pensavo a concerti «normali ma senza matrimonio alcuno», la tenacia della Rutter e il fascino di Chicago hanno avuto la meglio. Misi in programma, per il primo concerto-esperimento, la Sesta Sinfonia di Ciaikovski: la Patetica. Tempo poche battute, trovai una rispondenza, un voler lavorare appassionato, unici. Questo dopo esserci studiati reciprocamente come fanno gli animali e come peraltro capita con qualsiasi grande direttore e grande orchestra quando si incontrano e vogliono verificare se quanto hanno letto e ascoltato o sentito dire corrisponde o meno a verità e come. Mi accorsi subito di qualcosa di straordinario. Ogni cosa che chiedevo, con braccio e parole, aveva una risposta immediata e intensa, fatta di afflato ed emozione autentici. Da uno, due, tre concerti nacque una tournée europea che toccò anche Roma e Torino, Londra e Parigi. Era sbocciato un amore «da matrimonio» mentre si faceva infatti sempre più forte, nell’orchestra, il desiderio di avermi come direttore musicale.
E qui viene il «dopo Daniel Barenboim»...
Barenboim infatti era andato via. Due direttori quali Pierre Boulez e Bernard Haitink si dividevano gli impegni della Chicago Symphony in una sorta di interregno prestigiosissimo ma interlocutorio. Ricevetti più di sessanta lettere individuali piene di affetto e di ammirazione in cui ogni strumentista esprimeva il desiderio di fare musica continuativamente con me. Nel 2008 la scintilla si è così rinnovata. Come sempre, la richiesta è venuta dall’orchestra: come a Firenze, a Londra e alla Scala. Ero titubante ma un movimento così appassionato e un amore talmente contraccambiato, mi convinsero.
Si partì con la Messa da Requiem di Verdi, solisti Barbara Frittoli, Olga Borodina, Mario Zeffiri e Ildar Abdrazakov. E` il Requiem confluito su due CD: emissione autoprodotta dall’orchestra, come fanno tanti grandi complessi internazionali di fronte alla crisi del mercato discografico, registrando tutti i loro concerti e poi scegliendo cosa pubblicare. E` l’edizione del Requiem che in breve si è guadagnata due Grammy Award: il primo per il miglior album classico in assoluto, il secondo per il miglior album corale. E che il coro di Chicago sia una favola di emissione impeccabile, dolcezza e pienezza, flessibilità e colori è indiscutibile...
Proponemmo il Requiem nel settembre 2010 al Millenium Park in un concerto «Per Chicago» con trentamila persone – il parco venne chiuso per ragioni di sicurezza – dove i due grattacieli che si fronteggiavano portavano, rispettivamente, le insegne «CSO» e «MUTI» in un luminoso, ideale abbraccio. Il sindaco, poi, volle che per un mese la Michigan Avenue prendesse il nome Riccardo Muti.
Avventura splendida ma con un incidente di percorso qualche mese dopo: l’aritmia cardiaca, una brutta caduta dal podio che ha reso necessario una peraltro eccellente ricostruzione facciale. Cure sapienti e medici che hanno parlato di cuore sanissimo dopo che un pacemaker ha corretto tale aritmia e mantiene soltanto funzione di garanzia, di monitoraggio precauzionale.
In questo frangente l’orchestra mi è stata vicinissima anche con lettere assolutamente affettuose. Dopo essere stato dimesso dall’ospedale, due gruppi della Chicago Symphony, uno di ottoni e un altro d’archi, hanno tenuto due giorni di concerti come ringraziamento per le cure prestate, con la commozione dei pazienti, mia, di amici e della mia famiglia.
Non solo Grammy e, nel 2010, il titolo , il titolo di Musicista dell’Anno assegnato da «Musical America» ma anche, di recente, l’Opera News Award e il Premio Birgit Nilsson, il più ricco nel mondo della musica colta.
Questo 17 aprile «Opera News» mi ha conferito appunto l’Opera News Award. A consegnarmelo è stato Francis Coppola, regista de «Il padrino» e pure mio parente per parte di madre, tanto che siamo lontani cugini. Si e` poi aggiunto il Premio Birgit Nilsson, lascito di una fondazione voluta dal grande, scomparso soprano wagneriano e straussiano, la formidabile cantante svedese. Conferito la prima volta a Placido Domingo, il Premio viene assegnato ogni due anni a un artista del teatro e della musica dai criteri specialissimi: quelli stabiliti da una giuria internazionale di sette persone che decreta il riconoscimento all’unanimità. O tutti d’accordo, o niente. Il riconoscimento consiste in un milione di dollari e la cerimonia di consegna è prevista 13 ottobre prossimo al Teatro Reale dell’Opera di Stoccolma alla presenza della famiglia reale svedese.
L’Opera News Award ha coinciso con l’ultimo dei concerti con la Chicago Symphony tenuti nell’aprile alla Carnegie Hall di New York. In programma, una versione da concerto dell’Otello di Verdi; Berlioz con la Sinfonia Fantastica e il suo seguito, Lélio, voce recitante di Gérard Depardieu come a Salisburgo; un’ouverture di Cherubini, il poema sinfonico Les Préludes di Liszt e la Quinta Sinfonia di Shostakovich. Il tutto, fra concerti pomeridiani e serali, preparato in meno di quarantotto ore.
Sono stati appuntamenti straordinari, la stampa ha scritto di un passaggio tempestoso, di «Muti che ha preso Manhattan by storm», di un’orchestra che ha stabilito un legame ancora più forte con il suo direttore musicale e, cosa che mi ha davvero inorgoglito, che il complesso ha ritrovato il livello sommo dei tempi di Fritz Reiner.
Da Ravenna a Chicago passando per Salisburgo con l’ultima edizione mutiana del Festival di Pentecoste, che quest’anno cade nella prima metà di giugno. In scena, I due Figaro di Saverio Mercadante su libretto di Felice Romani, sequel di Barbiere e Nozze, dove Cherubino si spaccia per Figaro. Lavoro scritto nel 1826 per Madrid che descrive un arco tra la scuola napoletana ormai declinante e il nuovo stile rossiniano ornando il tutto con stilemi iberici. Un unicum, insomma, che si vale della nostra Orchestra Cherubini con Muti e del coro dei Wiener Philarmoniker e vede la regia di Emilio Sagi.
Il manoscritto de I due Figaro proviene dalla Biblioteca del Conservatorio di Madrid e l’allestimento è una coproduzione tra il Festival di Salisburgo, Ravenna Festival e il Teatro Reale di Madrid. Gérard Mortier, direttore artistico del Teatro madrileno, vorrebbe creare un gemellaggio fra la città spagnola, Ravenna e Napoli (Ravenna per meriti sul campo fra Cimarosa, Paisiello eccetera riproposti negli anni; Napoli come luogo deputato all’opera napoletana; si pensi anche ai rapporti politici fra Napoli e la Spagna). Si tratterebbe di riprendere – l’esperienza di un lustro a Salisburgo mi sembra sufficiente – il lavoro iniziato sulla Salzach e proseguire per vie nuove. Questa estate a Salisburgo [dove in luglio Muti compie gli anni: auguri sin d’ora per i suoi settanta prossimi venturi portati con agio mozartiano] dirigerò Macbeth con la regia di Peter Stein e due produzioni del Requiem di Verdi assieme ai Wiener Philarmoniker. Finiti impegni e tournée, ricomincia la stagione stanziale a Chicago dove ogni concerto ha due o tre repliche. Stagione che va da settembre a giugno, comprende il Festival estivo di Ravinia, vicino Chicago, tournée negli USA, in Estremo Oriente o in Europa e di nuovo concerti in loco.
L’Italia: il Ravenna Festival, l’Opera di Roma, il San Carlo di Napoli.
A Ravenna torno con i miei giovani «cherubini» per Mercadante prima del consueto «Viaggio dell’amicizia» che quest’anno é a Nairobi (so che a Nairobi bambini stanno imparando brani che canteranno con noi). Quanto ad opere di repertorio da proporre nei grandi teatri, sto pensando a un tris verdiano: Macbeth, Attila ad apertura della stagione 2012 e in fine Simon Boccanegra, l’unica grande opera di Verdi che mi manca. Ho progettato anche un Requiem verdiano al San Carlo.
Opera di Roma, 16 marzo scorso, Nabucco per i 150 anni dalla costituzione dello Stato italiano, «Va’ pensiero» non solo bissato a furor di popolo ma, su invito di Muti, cantato dall’intero teatro con il direttore che chiosa: «non vorrei che questo Nabucco o altre opere fossero il canto funebre dell’ignominiosa scure che si e` abbattuta» sulla musica e sulla cultura italiana. Col seguito, per così dire, «da bella favola», che sappiamo: il «Veni, vidi, capii» (il latino é un’opinione) di Giulio Tremonti.
Il Fus, Fondo unico per lo spettacolo, é stato ripristinato, pare. La visita di Tremonti dopo tanti appelli di tanti musicisti e artisti dello spettacolo, visita di un’ora, fatta a chi da più di quarant’anni si è battuto per la cultura, mi ha fatto piacere se ha contributo a ridare alle istituzioni i ventisette milioni di euro congelati. Diciamo che sono stato l’iceberg di una montagna: la parte che si è scontrata col Titanic ma in un incontro costruttivo. Sono poi felice che quanto accaduto a Roma in marzo sia rimbalzato ovunque e abbia dato un peso importante nel mondo al nostro paese. Un teatro intero che canta col coro é un segnale positivo. Restituisce un grande orgoglio a quell’Italia che di questi tempi ai giornali stranieri interessa per altri motivi decisamente meno nobili. E` un momento di ammirazione ossigenante. Ci sono però molte considerazioni da fare sulla situazione del Bel Paese con relativi provvedimenti. Bisogna permettere ai teatri italiani di respirare. Bisogna anche fare pensieri seri su come tali teatri devono marciare. Non col passo lento e obsoleto di programmi messi su da persone che non hanno competenza o conoscenza in materia di musica secondo nomine che, a loro volta, nulla hanno a vedere con la conoscenza e l’esperienza musicale. In America vedono il direttore musicale al vertice delle istituzioni. Il motivo per cui nei programmi il suo nome compare prima di tutti gli altri, senza la piramide italiana di sovrintendenti, direttori artistici eccetera. Mentre in Italia il direttore musicale non ha potere di firma se non la propria autorevolezza, che é comunque musicale ma non legale. Non può prescindere purtroppo dal controllo esterno, esercitato troppo spesso da burocrati. E` tempo di finirla poi con «discorsi di eccellenza» ovvero con gare, fra un teatro e l’altro, a chi è o sarebbe il più bravo. Va svecchiato tutto un mondo teatrale legato a formule parassitarie. Ogni teatro, poi, deve essere messo in condizione di dimostrare quanto sa fare e quanto vale. Ci vuole anche una maggiore collaborazione fra le diverse Fondazioni liriche, senza ambizioni infantili da primi della classe. Non è un caso che i grandi festival mondiali, oggi, guardino con meno interesse all’Italia. Questo perchè il nostro paese si è impantanato. E poi quella italiana é una realtà molto particolare, fatta anche di tanti piccoli, splendidi teatri. Ha caratteristiche sue proprie e imprescindibili. Insomma. C’è molto cammino da fare. Bisogna però che i luoghi siano operativi in maniera moderna e non risultino invece istituzioni assistenziali.
L’Italia e il mondo...
Chicago, Salisburgo, Roma, Napoli che vuole recuperare la sua grande storia sono tutti elementi cui un musicista italiano può guardare. Penso all’Orchestra Cherubini che ho creato e cresciuto, che si è guadagnata onori a Mosca e Parigi, è stata per cinque anni protagonista del Festival di Pentecoste a Salisburgo ed è il complesso in residence del Ravenna Festival. Orchestra che è stata diretta da bacchette somme come Kurt Masur e Yuri Temirkanov; che quest’anno offre un programma interamente lisztiano con Michele Campanella. Tutto questo è la dimostrazione che in Italia esiste una realtà giovanile importante. A patto, s’intende, che chi fa musica sia messo in condizione di dare il suo contributo. E qui sta il problema. Uno dei tanti.

intervista di Alberto Cantù ("MUSICA", n.227, giugno 2011)

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