Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 02, 2013

Wagner: Il crepuscolo degli dei

Hagen e suo padre Alberich
(Arthur Rackham 1867-1939)
Età ultima: età di uomini. Dei luminosi Asen abitatori del Walhalla, una sola traccia scialba: quella di Wotan che, dal racconto d'una sua messaggera, s'intravede tetro e taciturno nel concistoro degli dei, davanti alla immane catasta pronta a divampare, e a tutto distruggere. Delle deità inferiori, quella sola medesima messaggera, walkiria scorata, che vede consumarsi l'ultima sua speranza. Tra i demoni elementari, non più giganti né nani, soltanto l'ombra sinistra di Alberico nel sogno, o meglio, nell'incubo notturno di Hagen seduto a guardia della reggia ghibicunga. Le stesse tre Norne, le tessitrici del destino, compaiono sull'altura selvaggia delle walkirie, soltanto per lasciar intendere, che l'amara vicenda degli esseri, di tutti gli esseri, sta per finire. Il loro filo si strappa, per non riannodarsi in eterno. Scaduti o sminuiti anche gli eroi: Siegfried, da uccisore del drago, vincitore dello stesso Wotan e risvegliatore di walkirie, mutato, sotto l'impero d'un filtro, in avventuroso magico per conto altrui e in marito trasognato; Brünnhilde, per un tradimento insieme reale e presunto, fatta da amante eroica, filistea gelosa e bassa vendicatrice. Fuori di ogni eroismo, quando non addirittura al di sotto di ogni umanità, le persone nuove: inteso Hagen, animo pieno di frode, soltanto a quelle sue trame, che lo porteranno al tradimento e al delitto; evanescente Gutrune, tra veli tenui come di nebbia d'argento; impacciato e ingenuo fino al grottesco Gunther, nella sua umanità sempre vinta e sopraffatta.
Ragione di tanto squallore? Una sola, fondamentale: il sempre più ostinato isolarsi dell'individuo dalla Natura-Tutto; il sempre più orgoglioso contrapporsi della sua consapevolezza (Bewusstsein) alla divina inconsapevolezza (Unbewusstes) di quella primordiale unità. Brillava infatti un tempo, all'origine del mondo, l'oro puro nel fluire eterno dell'acqua innocente. Se non che, rapito quell'oro dalla mano cupida del nano Alberico, la catena delle colpe s'è iniziata ed ha continuato a svolgersi senza interruzione. Sue prigioniere e schiave, tanto l'una quanto l'altra delle due stirpi perennemente nemiche: quella luminosa di Wotan, degli dei e degli eroi da lui generati; quella oscura dei nani, dei giganti e degli esseri elementari. Unica soluzione possibile: la purificazione universale col fuoco - incendio del Walhalla e del mondo - e il dissolvimento dei singoli nella primordiale innocente unità: acqua che alla fine tutto invade e, secondo la sapienza ultima di Brünnhilde, ricupera l'oro, e viene a chiudere nel proprio grembo le ceneri dell'universo.
Questa la realtà metafisica che Wagner vive e riesce a far vivere nella Tetralogia, con penetrazione singolarissima della cosmologia nordica e con espressione d'arte imperitura. Per la verità, il dramma poetico del Crepuscolo, ultimo della serie in ordine logico, ma primo in ordine cronologico procede, anche nelle sue ultime rielaborazioni, assai più debole degli altri, impedito ancora dai detriti di confuse ideologie politico-sociali, e sopratutto, non mai completamente maturato dal suo iniziale stato di abbozzo. Male, anzi, interiormente, punto giustificata l'azione dei due filtri, che riduce il protagonista, non al vivo inconscio della selva ma all'automatismo smorto del sonnambulo; numerose le ripetizioni, fastidiosi i riassunti dai precedenti, non raramente ingenuo il dialogo, barocca l'immagine, incolore le figure. Ma basta che quella visione metafisica, che già nel Prologo delle Norne s'era disegnata agli occhi spirituali del poeta, balzi loro nuovameente incontro, perchè improvvisamente tutto si ridesti e si riaccenda. La scena delle Figlie del Reno riesce tra le, più luminose della Tetralogia. E il finale, dilatato fino agli estremi confini del mondo, non soltanto sorpassa a dismisura la scialba e angusta sua preparazione, ma costituisce per sè una di quelle rappresentazioni che toccano il vertice della sublimità tragica.
Le quattro sue successive rielaborazioni, oltre quella rappresentata dal presente testo, segnano le tappe del lungo e consapevole travaglio del poeta. Dall'atmosfera grossolanamente ottimistica e ardentemente politica di Feuerbach, Röckel e Bakunin, a quella sottilmente e disperatamente pessimistica del Buddo e di Schopenhauer, e, infine, a quella nuovamente ottimistica ma spiritualmente cristiana, o almeno cristianizzante, della "compassione" di Parsifal, il dramma viene via via illuminandosi di tante e così diverse luci, da dare il barbaglio e quasi la vertigine. Una più attenta considerazione porta tuttavia a riconoscere che, per quanto molte e variamente colorate, quelle luci partonolutte da un solo punto: dalla perenne, caratteristica aspirazione germanica verso l'inconscio e dalla conseguente avversione verso l'intelligenza considerata, in quanto creatrice ed isolatrice dell'individuale, origine di tutti i mali e detentrice di tutte le colpe. Ancora più profondo: dalla perenne aspirazione germanica verso il dissolvimento di tutte e di ciascuna di quelle innumerevoli esistenze limitate, in cui un cieco crudo destino, la Wurd, ha voluto che si frantumasse l'unità del Tutto. Sotto questo rispetto, la redazione qui accolta, che è anche quella così inconsapevolmente declamata e cantata da tanti attori sulla scena e cosi inconsapevolmente ascoltata da tante folle nei teatri, viene a rappresentare nella sua espressione, spoglia delle ideologie successivamente sopraggiunte, la maggiore e migliore adesione. alla metafisica naturalistica e alla cosmologia tragica dell'Edda.
Quintessenza, dunque, di odinismo. Coloro che hanno giudicato del finale del Crepuscolo come di un trapasso senza discontinuità verso il cristianesimo, o addirittura come di una simbologia mitologica rivestente uno spirito già cristianizzato, a mio avviso, o hanno dato troppo peso alla variante mai musicata di sapore parsifaliano e a qualche altro vago particolare, di cui è detto nel commento; o non si sono resi abbastanza conto, nè della vera essenza del paganesimo odinico, nè delle numerose e tenaci radici, onde lo spirito wagneriano si trova ad esso congiunto. Realmente così numerose e tenaci, che una serie di letture abbastanza rapide e superficiali potè bastare a che il pensatore-poeta, penetrasse in quell'essenza ben più a fondo di tutte le indagini di una critica secolare, e riuscisse a farsene sangue del proprio sangue e spirito del proprio spirito. Tanto, che non se ne liberò più: neppure all'ultimo rigoglioso prorompere di quella spiritualità cristiana, che, insospettata da Nietzsche, aveva pur sempre e fin da principio costituito, per dirla goethianamente, la seconda anima del suo petto.
Rappresentazione grandiosa. Il Drews ha ragione di trovare nella Tetralogia di Wagner un respiro di universalità più vasto che nel Faust di Goethe: tragedia d'un uomo questa, tragedia d'un mondo quella. Ma è anche lecito rilevare - prescindendo dalla smisurata ricchezza e sapienza artistica dell'una, e dalla elementarità scabra mista di tumido barocco dell'altra - che di tanto la Tetralogia sorpassa per interiore coerenza il Faust, di quanto un granitico paganesimo avanza in saldezza e compattezza un cristianesimo ibrido e composito. Una sola opera forse, può, sotto questo rispetto, stare di fronte alla "elementare tragedia" wagneriana: la Divina Commedia dantesca. Se non che qui, superfluo dirlo, l'interiore coerenza si costruisce con tale armonia e s'illumina di tanto alta spiritualità, che la Tetralogia n'esce, al confronto, necessariamente greve e opaca.
Il dramma musicale, non parallelo al poetico, ma inserito nella stessa sua viva essenza, secondo lo spirito di quella dottrina che da me è stata a suo tempo ampiamente illustrata nella prefazione del Tristano, mira, nel Crepuscolo, soprattutto ad immettere in un solo alveo le molteplici correnti che sono necessariamente affiorate, in corso più o meno lungo e impetuoso, durante tutta la Tetralogia. Relativamente scarsi, quindi, i motivi nuovi - una terza parte circa di quelli che compongono l'intera tessitura musicale dell'opera - e netto il predominio del «tematismo» sul «motivismo»: inteso quello come pura composizione musicale, e questo come espressione piena e complessa insieme d'arte e di vita. Meno frequente perciò, che nelle prime Giornate, la meraviglia e l'«incantesimo» dell'ascoltatore; ma in compenso, più, consapevole e profonda la sua ammirazione. Quel confluire, infatti, e ritrovarsi di motivi e di famiglie di motivi - non si tratta, naturalmente di metafora poetica nè di schematismo critico, ma di realtà viva che congiunge in famiglie e categorie così gli uomini e le cose, come le loro voci -; e sopratutto quel loro ultimo conciliarsi e comporsi nei motivi essenziali e eterni dell «acqua» e dell'«amore» quasi come in un' inscindibile dualità di corpo e di spirito, mentre afferma ancora una volta, di fronte a chi voglia e a chi non voglia intendere, la presenza reale e attuale di fantasia e pensiero nell'opera d'arte, riesce alla duratura conquista della nostra umanità. Che è poi la più alta consacrazione, a cui quella medesima opera possa e debba aspirare.
 
La presente edizione è stata condotta, come le altre dei drammi precedenti, sul testo dello spartito musicale adottato dalla regia di Bayreuth (Breitkopf u. Härtels Textbibliothek, n. 520) riveduto nella grafia ed emendato nella punteggiatura. Le varianti (escluse al solito quelle delle didascalie e le meramente grafiche) procedono dal testo letterario definitivamente curato dall' autore e dalle varie rielaborazioni rappresentate dalle anteriori edizioni. Il lettore le troverà registrate e descritte nel commento, sotto,il titolo: Origine, composizione e fortuna.
Sulla versione italiana (Zanardini) e sulle francesi (De Brinn' Gaubast, Ernst) da me sempre tenute presenti, non avrei che a ripetere quanto ho già scritto nelle prefazioni ai precedenti drammi, e più specialmente al Siegfried. E a quelle rimando, non senza rinnovare l'augurio che si trovi modo di risparmiare al nostro pubblico un testo in troppi luoghi non dico frainteso, ma addirittura sfigurato.
Criteri di versione e di commento. i medesimi anch'essi, altre volte fissati. Mi si permetta richiamarli dal Siegfried: «Forte della ventennale esperienza di traduttore goethiano e wagneriano, ho cercato di penetrare nei recessi più reconditi del ricchissimo lessico e di sciogliere ad una ad una le pieghe del singolarissimo stile wagneriano, non senza augurarmi che qualche studioso di seria esperienza e di gusto sicuro sia finalmente allettato, da quel che ho qui raccolto necessariamente per cenni, ad uno studio compiuto ed organico sull'argomento. Conservata e fermata ancora una volta, fino agli estremi limiti del nostro possibile linguistico, lettera e spirito dell'allitterazione sia consonantica che vocalica, ho lasciato di quando in quando spontaneamente fiorire la rima (anche interna) e adottato il verso regolare italiano - specie l'endecasillabo - ogni volta che, in fedeltà di versione, l'originale, più che consentirlo, mi sembrava addirittura richiederlo. N'è così venuta, se non mi inganno, una più intima aderenza dell'espressione italiana allo spirito poetico-musicale, alla metrica, alla prosodia e alla rara ma pur presente rima del dramma, e, l'insieme un che di più luminoso e arioso, onde' il nostro pubblico s'avvierà, ritengo, sempre meglio alla comprensione del mondo nordico.
«Nove anni di interruzione hanno reso indispensabile, sulla base dei nuovi studi, veramente, tolti alcuni notevolissimi, molto più abbondanti che rivelatori, uno scrupoloso aggiornamento bibliografico e una forte rielaborazione del commento linguistico, mitologico, estetico e musicale. E l'una cosa e l'altra è stata compiuta con lunghe e non sempre facili ricerche e con assidua meditazione. La già da me esposta e illustrata interpretazione del Ring n'esce, mi sembra, vie maggiormente, per non dire definitivamente consolidata. Ancora una volta il commento del GOLTHER, eccellente ma scarsissimo, m'è quasi mancato; in compenso quello del de BRINN' GAUBAST mi è stato molto più utile che nella Walkiria. Qualche non inutile novità - la citazione dei testi eddici riferita, oltre che alla versione tedesca, anche all'originale nordico; la lista delle abbreviazioni bibliografiche; il richiamo dei motivi rielaborati al luogo dove la prima volta sono apparsi e registrati nel commento; le genealogie mitiche ricostruite dalle fonti; una migliore distribuzione e chiarezza nei corpi e nell'assetto tipografico - riuscirà gradita, spero, a pubblico e a studiosi».
«Per l'illustrazione musicale, non ho che a ripetere il più volte detto. Senza allontanarmi
dai criteri di un'accessibile divulgazione, ho tenuto presenti il commento di E. BARTHELEMY (annesso alla versione del de Brinn' Gaust), e le guide dello CHOP (Reclam), del WAACK (Breitkopf u. Härtel), del BURGHOLD (Schott) e del BASSI (Ricordi). Ma assai più, come sempre, ho cercato di far rivivere impressioni ed esperienze dirette, principalissima, tra le quali, naturalmente, l'audizione di Bavreuth».

Guido Manacorda, 1935 (testo riveduto da Giulio Cogni)

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