Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 09, 2013

I Quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (III)

Ludvig van Beethoven (1770-1827)
by Arthur Paunzen (1890-1940)
QUINTESSENZA DEL GENIO BEETHOVENIANO - I Quartetti di Beethoven
 
Alla fine del Settecento il quartetto per archi si trovava diviso su due fronti stilistici dai percorsi antitetici e paralleli, anche se non privi d'interscambi occasionali. Da una parte, in un arco compreso tra la Madrid di Boccherini, la Lombardia di Rolla, la Torino degli ultimi rappresentanti della scuola piemontese, e la Parigi di Baillot, Kreutzer, Rode, Saint-Georges, Pleyel e degl'italiani déracinés (Viotti, Cambini, Giardini, Bruni, Radicati), fiorisce l'effimero "impero d'occidente" del quartetto "concertante" e/o "brillante", destinato all'esecutore virtuoso e al concerto pubblico. E' una produzione promossa dalla grande editoria e caratterizzata dalle attrattive dell'edonismo e del virtuosismo: tante piacevoli melodie allineate in un rilassato contenitore sonatistico, dove il principio dell'elaborazione tematica è in gran parte - se non proprio del tutto - sostituito da quelle della ripetizione attraverso i piani armonici di elementari progressioni.
 
A Vienna abbiamo invece, come tutti sanno, l'esatto opposto, germogliato dal seme haydniano e incrementato dall'esperienza di Mozart. Il quale sul ceppo del suo grande contemporaneo aveva innestato la profondità della sua sensibilità armonica, la sterminata ricchezza della sua inventiva melodica, il suo senso del dramma e del pathos: non senza qualche spregiudicata incursione (con i Quartetti "prussiani") nei territori di quell'amabilità concertante rigorosamente rifiutata dal radicalismo di Haydn, intento a sviluppare al massimo grado quel principio elaborativo che si può riassumere con questa formula: ricavare il massimo dal minimo, attraverso l'arte di "rovistare nel tema" come un secolo dopo dirà Brahms.
 
E' a questo punto che s'innesta il primo contributo di Beethoven a una civiltà quartettistica viennese giunta, dopo Mozart e tuttora operante il vecchio Haydn con i suoi ultimi capolavori, a un punto di estrema saturazione stilistica. L'opera 18 (1798-1800) giunge buon'ultima, dopo anni dedicati ad una produzione cameristica incentrata nel pianoforte, lo strumento che aveva accompagnato l'ascesa di Beethoven come compositore-concertista. I sei Quartetti filtrano così il loro approccio all'eredità haydn-mozartiana attraverso un'esperienza intensamente personale, quella di opere come i Trii op. 1, le Sonate op. 2 e op. 7, quelle op. 5 per pianoforte e violoncello e op. 12 per piano e violino che già avevano fatto esplodere il delicato e imperfettibile equilibrio sonatistico dei predecessori. Non è possibile giudicare questi sei ambiziosi Quartetti, puntigliosamente elaborati nella consapevolezza dell'immenso rischio che comportava l'esordio in un genere ritenuto al vertice della professionalità di un musicista, senza tener conto che nel frattempo i modelli viennesi (di Haydn e del Mozart dei sei Quartetti op. 10 dedicati ad Haydn) si erano troppo allontanati e andavano in qualche modo sostituiti. Ecco quindi che Beethoveri adatta al medium quartettistico strutture e procedimenti eccentrici, accentuando, da una parte, certi tratti di estrosità haydniana nella scelta di motivi piccanti soprattutto per i tempi veloci e gli scherzi o minuetti, dando fondo alla cantabilità nei movimenti centrali, addensando le sonorità, levigando gli spigoli di Haydn e le asperità armoniche di Mozart in una generalizzata, florida eufonia.
 
La prodigalità dei materiali tematici gettati con effetti accumulativi entro un recipiente sonatistico necessariamente dilatato, il gusto per i contrasti di temi, ritmi, aree armoniche, lo spessore fonico e la sensualità timbrica sono i tratti salienti di queste opere peraltro assai ben differenziate e caratterizzate; lontane tanto dalla nervosa leggerezza e dalla parsimonia haydniana, quanto dall'audacia di certe introspezioni mozartiane, sostituita ora da una prevalente ottimistica euforia, ora dall'effusa vena elegiaca di certi movimenti lenti, come l'Adagio affettuoso e appassionato (due aggettivi quanto mai significativi dell'espressività lirica beethoveniana) dell'op. 18 n. 1. In tanta giovanile abbondanza d'immagini, sussiste, eredità fondamentale dei predecessori e già fatta propria da Beethoven con potente determinazione, il principio dell'elaborazione tematica.
 
L'essenzialità e la necessità morfologica, ottenute attraverso l'impiego sempre più coerente dell'elaborazione, sono il fine che Beethoven si propone negli anni successivi all'op. 18. Si tratta di rigenerare i tessuti troppo dilatati delle strutture sonatistiche, trasformandoli nei tessuti sodi e scattanti di strutture altrettanto vaste, ma permeate da un forte dinamismo basato sulla dialettica dei contrasti interni. In questo senso, accanto alle Sonate op. 53 e 57 per pianoforte, alle Sinfonie Terza, Quarta, Quinta e Sesta, ai concerti per pianoforte e per violino, i tre Quartetti op. 59 (1805 -06) assumono valore esemplare. Inconcepibili senza l'impulso della coeva produzione sinfonica, di questi tre capolavori si può dire che riversino nel medium quartettistico, senza punto snaturarne la specificità, tutta la dialettica e i rapporti di forza (ritmo, massa sonora, contrasti dinamici, oltre, s'intende, alla tensione elaborativa) che Beethoven era andato elaborando nelle sinfonie e che qui comprime e decanta in una rigorosa dimensione cameristica debitrice altresì di quelle tardive e preziose influenze soprattutto mozartiane (si tratta, questa volta, del Mozart dei grandi Quintetti in Do maggiore e sol minore) che incominciano a farsi avanti con crescente insistenza nella creatività del Beethoven maturo.
 
Opere apparentemente isolate, i Quartetti op. 74 e op. 95 sono in realtà il risultato di un processo di ulteriore affinamento stilistico, nel quale l'idea della forma-sonata viene sottoposta ad una rigorosa verifica attraverso un discorso ellittico e di una incisività e concentrazione estreme, attuato nella più meditata economia dei materiali, in profondo contrasto con la sovrabbondanza di un tempo. Emerge una rinnovata aspirazione ad una purezza e ad una simmetria mozartiane, ed anche forme e strutture rinunciano in monumentalità quanto acquistano in duttilità e delicatezza. Si profila l'estrema spiaggia dello stile beethoveniano, che nell'ultima fioritura quartettistica troverà la sua espressione più completa e forse più alta.
 
Composti dietro invito di un nobile committente, il principe Golicyn (ancora un russo, come già il conte Rasumovskij, destinatario dell'op. 59), gli ultimi Quartetti prendono vita in un periodo compreso tra la primavera del 1822 e l'ottobre del 1826, lasciandosi alle spalle le ultime sonate per pianoforte, la Nona Sinfonia e la Missa Solemnis. Sono opere profondamente omogenee per stile e dimensione espressiva, assai più di quanto non lo fossero le opere 18 e 59: un panorama immenso e tuttavia raccolto entro un arco unitario, dove si squaderna tutto l'universo dell'ultimo Beethoven.
 
Giunto al culmine della sperimentazione dei mezzi espressivi e della propria solitudine storica, il compositore si riserva il privilegio supremo di operare liberamente le proprie scelte linguistiche senza restrizioni di tempo, di genere, di stile. Ciò significa che l'estrema produzione beethoveniana si configura in ultima analisi come una ricapitolazione, talora una giustapposizione di tutti gli stilemi che l'hanno preceduta nel tempo, contemplati dall'alto di un "punto di vista" trascendente che tutti li equipara. Vecchio e nuovo, attuale e inattuale, datato ed aggiornato sono categorie estranee a questo sublime «colpo d'occhio" che sa ravvivare le "macerie" secondo una forte espressione di Adorno - di un passato per altri irreversibile e riciclarle non come citazione inerte, ma come elemento costitutivo reinvestito d'intrinseca necessità.
 
Entro questo sistema inaudito e guardato a lungo con religioso sgomento ma anche con irritata incomprensione dai posteri, coesistono, pertanto, il giovanile procedimento effusivo-additivo e la più rigorosa elaborazione tematica; le tecniche polifoniche recuperate dal profondo dei secoli su su fino a Bach e Händel, e il moderno sonatismo basato sulla dinamica dei campi armonici, dei temi e della loro elaborazione; l'assoluta oggettività e l'urgere dell'elemento soggettivo negli accenti di un recitativo strumentale vibrante di drammaticità; le sofisticazioni armoniche di gusto modale e il più corrente formulario cadenzale; le forme più auliche e trascendenti accanto a quelle più rustiche; il macrocosmo di strutture ciclopiche come i Quartetti op. 130 e op. 131, e il microcosmo di oggetti miniaturistici come l'enigmatica, ironica op. 135.
 
Insieme con il contrappunto, che irrora delle sue energie tutto l'ultimo stile beethoveniano
e che qui culmina in un terrifico monumento come la Grande Fuga op. 133 (in origine, posta a conclusione dell'op. 130), è la tecnica della variazione a qualificarsi come principio costruttivo basilare anche al di là dei movimenti espressamente ad essa destinati. Il radicalismo di tale tecnica non ha eguale se non nel Bach delle Variazioni Goldberg e degli ultimi Preludi corali, da cui Beethoven prende idealmente l'avvio, senza per questo accantonare le tecniche varianti tradizionali di tipo ornamentale-virtuosistico, integrandole, al contrario, rigenerate e sublimate, in un contesto organicamente onnicomprensívo, conforme anche in questo a quella superiore "disponibilità" cui sembra aprirsi l'ultimo orizzonte creativo del compositore.
 
GLI ULTIMI QUARTETTI
"Il vostro genio ha superato i secoli, e non vi sono forse ascoltatori abbastanza illuminati per gustare tutta la bellezza di questa musica; ma saranno i posteri a renderle omaggio e a benedire la vostra memoria". Queste parole profetiche, pronunciate dal principe Nikolaj Borisovic Golicyn, il committente dei primi tre dei cinque lavori che concludono l'esperienza beethoveniana nel campo dei quartetto, possono venire collocate come epigrafe in testa ad una delle avventure più visionarie mai compiute da un genio musicale pervenuto alla sua massima definizione. La composizione degli ultimi cinque Quartetti tenne impegnato Beethoven dal maggio 1822 al novembre 1826, quando di Maestro scriverà il nuovo Finale per l'op. 130.
 
Il primo Quartetto del gruppo, in Mi bemolle maggiore op. 127, viene ultimato nel febbraio 1825. Di tutti i fratelli, è quello che presenta un'ispirazione più uniforme, immerso com'è in una diffusa luce lirica che annulla in sé ogni contrasto troppo spiccato. In esso si manifesta in sommo grado quella "mozartiana" assolutezza, quella trasumanata serenità non aliena da tratti giocosi (l'amabile Finale, che riecheggia reminiscenze di settecentesche serenate viennesi) che avanza fin dal primo tempo "teneramente" sui passi di un Laendler idealizzato. Ma l'op. 127 comprende anche un Adagio con cinque variazioni che contendono forse vittoriosamente il primato all'altro grande esempio di variazione beethoveniana di questi ultimi anni, quello che è parte dell'op. 13 l.
 
Segue, in ordine cronologico, il Quartetto in la minore op. 132, ultimato nel luglio 1825. Nel primo tempo, un chiaro bitematismo (costituito da un nucleo iniziale affidato alle febbrili impennate del primo violino e agl'incisi di risposta della viola e del violoncello, e da un secondo episodio d'una tenera cantabilità assolutamente schubertiana) sviluppa un discorso nel quale il principio sonatistico del contrasto dialettico viene sostituito da una contemplativa e circolare giustapposizione d'immagini diverse. Il successivo Allegro ma non tanto è un vero Scherzo lievissimo e intessuto difreschi motivi di danza, con un Trio di cornamuse. La celebrata "Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico" è sempre stata giustamente considerata tra le espressioni più "individuali" e più visionarie di tutta la musica beethoveniana, anche se essa deve paradossalmente quel suo carattere così intimamente soggettivo a una sorta di sublimazione del materiale musicale, divenuto ancora più "neutro" e "anonimo" in virtù del suo sconfinamento nei domini della modalità antica e di tecniche compositive arcaiche come il cantus firmus attorno al quale, come nei preludi corali bachiani, si sviluppa l'efflorescenza delle altre voci. Una "Marcia" e un Allegro appassionato riportano quindi l'itinerario spirituale dalla trascendenza a una dimensione più drammaticamente umana.
 
Ultimato nel novembre 1825, il Quartetto in Si bemolle maggiore op. 130 è articolato in sei movimenti che corrispondono a quelli del divertimento settecentesco, con due tempi lenti differentemente caratterizzati e due intermezzi in ritmo ternario. E invero, tra gli ultimi Quartetti, l'op. 130 è quello che realizza nella forma più alta quell'aspirazione allo schilleriano Sublime inteso come "Senso di letizia" suprema libertà dello spirito che "col suo braccio forte ci porta al di là del profondo abisso". Così la leggerezza dei movimenti rapidi e il terso lirismo di quelli lenti (come la purissima "Cavatina") o il tono ambiguamente scherzoso di brani come l'Andante con moto ma non troppo, e ancora gli echi agresti trasfigurati nella "Danza tedesca" costituiscono gl'ingredienti espressivi di un "divertimento" spirituale nella più squisita accezione etimologica del termine. Significativo il fatto che Beethoven abbia consapevolmente sostituito la Grande Fuga, che in origine concludeva il Quartetto, con un altro finale la cui gaia amabilità, traboccante dal suo tema all'ungherese, avrebbe mirabilmente ristabilito un equilibrio compromesso.
 
Pubblicata a parte come op. 133, la Grande Fuga sarà per molto tempo la pietra dello scandalo dei commentatori scolastici, incapaci di piegarla alle loro analisi formalistiche e di giustificare la ciclopica asperità del suo linguaggio strumentale, che trova un corrispettivo soltanto nelle tremende architetture dell'altro monstrum polifonico beethoveniano, posto a conclusione della Sonata op. 106. La Grande Fuga si configura in realtà come un tentativo di sintesi tra gli elementi sonatistici (ravvisabili, tra l'altro, nei tre movimenti senza soluzione di continuità in cui è distribuito il discorso) e quelli del contrappunto, tenuti insieme da una rigorosa unità tematica che garantisce la fondamentale unità dell'intero brano: in breve, tre aspetti diversificati di un'unitaria concezione polifonica.
 
Gli ultimi due Quartetti nasceranno indipendentemente dalla committenza di Golicyn, quasi come il seguito di un incontenibile fiotto d'ispirazione. Il Quartetto in do diesis minore op. 131 viene ultimato nel luglio 1826. Si tratta del più monumentale tra tutti i Quartetti di Beethoven; in esso anche le ultime tracce della forma-sonata si dissolvono e i vari movimenti, saliti a sette, si susseguono per la prima volta ininterrottamente, come seguendo il filo di un lunghissimo soliloquio dell'anima attraverso i più disparati stati di coscienza. Il susseguirsi ininterrotto di tali eventi interiori si concreta in forme le quali più che mai trovano la propria logica in se medesime di là di ogni riconoscibile tracciato tradizionalistico, pur sussistente - fugati, scherzi, variazioni e simili - come lontana idea platonica di un archetipo.
 
Lo stesso si può dire del Quartetto in Fa maggiore op. 135, composto contemporaneamente al precedente, ma portato a termine nell'ottobre del 1826. Qui Beethoven, ripercorrendo il cammino fatto con l'Ottava Sinfonia, torna alle ridotte proporzioni settecentesche, a quattro tempi che hanno tutta l'apparenza di movimenti tradizionali e persino a una maggìore evidenza, all'interno di essi, di quelle che potrebbero essere interpretate come tradizionali strutture sonafistiche. Eppure la vanificazione di tali strutture attraverso il congelamento di tutte le pulsioni dinamiche che ne costituivano l'essenza, qui si fa ancor più capillare e integrale. Tra l'inquietante ambiguità del primo tempo e i trasalimenti avveniristici di segno quasi bartókiano dello Scherzo, il mistero s'infittisce - dopo la breve parentesi lirica del "Dolce canto di riposo e di pace" - nel Finale, costruito sul tema del canone scherzoso "Es muß sein, es muß sein, ja, ja" composto nell'aprile precedente. Introdotto e poi interrotto dallo scuotimento tellurico di un Grave che sembra mettere a nudo le più riposte fibre del suono, l'Allegro si chiude con un "pizzicato" in pianissimo: sottovoce e ammiccando con sublime umorismo, Beethoven si congedava così dalla musica e dalla vita.

Giovanni Carli Ballola (Philips, 1989)

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