Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, dicembre 22, 2012

Kundera: un bambino in estasi...

Milan Kundera (1° aprile 1929)
Naturalmente non si può affermare che la musica (tutta la musica) sia incapace di esprimere i sentimenti: quella dell'epoca romantica è autenticamente e legittimamente espressiva, ma anche di essa si può dire che il suo valore non ha niente a che vedere con l'intensità dei sentimenti suscitati. La musica ha infatti lo straordinario potere di destare sentimenti anche in assenza di arte musicale. Ricordo che da bambino mi sedevo al pianoforte e mi abbandonavo a improvvisazioni appassionate per le quali mi bastavano un accordo di do minore e della sottodominante fa minore, ribaditi sempre fortissimo e all'infinito. Questi due accordi e il motivo melodico primitivo continuamente ripetuti mi hanno fatto vivere emozioni di un'intensità mai provata ascoltando Chopin o Beethoven. (Una volta mio padre, che era musicista, si precipitò nella mia stanza, furibondo - mai più, né prima né dopo, l'ho visto così furibondo -, mi sollevò di peso dallo sgabello e mi portò in sala da pranzo, dove, dominando a stento la sua repulsione, mi ficcò sotto il tavolo).
Ciò che sperimentavo allora, durante le mie improvvisazioni, era una sorta di estasi. Che cos'è l'estasi? Pestando sul pianoforte, il bambino prova una grande emozione (una tristezza, un'allegria), che perviene a un tale grado di intensità da diventare insostenibile: il bambino si rifugia così in quello stato di accecamento e di assordamento in cui si dimentica ogni cosa, perfino se stessi. Con l'estasi, l'emozione giunge al parossismo e simultaneamente alla propria negazione (al proprio oblio).
Estasi significa essere «fuori di sé», come dice l'etimologia della parola greca: uscir fuori dalla propria posizione (stásis). Essere «fuori di sé» non significa essere fuori dal momento presente, come il sognatore che evade verso il passato o verso il futuro. Significa esattamente il contrario: l'estasi è infatti identificazione assoluta con l'attimo presente, oblio totale del passato e del futuro. Quando il passato e il futuro vengono cancellati, l'attimo presente si trova in uno spazio vuoto, fuori dalla vita e dalla sua cronologia, fuori dal tempo e da esso indipendente (perciò è paragonabile all'eternità, anch'essa negazione del tempo).
L'immagine acustica dell'emozione si può riconoscere nella melodia romantica di un Lied: la sua stessa lunghezza sembra voler meglio mantenere l'emozione, svilupparla, darci il tempo di assaporarla lentamente. L'estasi invece non può riflettersi in una melodia, poiché la memoria, soffocata dall'estasi, non è in grado di tenere insieme le note di una frase melodica di lunghezza appena normale; l'immagine acustica dell'estasi è il grido (oppure un brevissimo motivo melodico che imiti il grido).
L'esempio classico dell'estasi è il momento dell'orgasmo. Torniamo col pensiero all'epoca in cui le donne non conoscevano ancora il beneficio della pillola. Spesso, nel momento del piacere, l'uomo dimenticava di ritirarsi a tempo fuori dal corpo della sua amante e la metteva incinta, anche se pochi attimi prima aveva la ferma intenzione di essere più che prudente. L'attimo dell'estasi gli aveva fatto dimenticare sia la sua decisione (il suo passato immediato) sia i suoi interessi (il suo futuro).
L'attimo dell'estasi ha dunque pesato sulla bilancia più del figlio non desiderato; e poiché questo riempirà probabilmente con la sua presenza non voluta l'intera vita dell'uomo, si può dire che un attimo di estasi ha pesato più di una vita intera. La vita dell'uomo si trovava, di fronte all'attimo dell'estasi, in una condizione di inferiorità simile a quella della finitezza di fronte all'eternità. L'uomo desidera l'eternità ma può averne soltanto il surrogato: l'attimo dell'estasi.
Mi torna in mente un episodio della mia giovinezza: ero con un amico nella sua macchina e davanti a noi c'erano persone che attraversavano la strada. Ho riconosciuto un tale che mi era antipatico e l'ho indicato al mio amico: «Mettilo sotto!». Scherzavo, naturalmente, ma lui si trovava in uno stato di straordinaria euforia e ha accelerato. L'uomo ha avuto paura, ha perso l'equilibrio ed è caduto. Il mio amico ha bloccato la macchina all'ultimo momento. L'uomo non era ferito, ma i passanti si sono accalcati intorno a noi ben decisi (e posso capirlo) a linciarci. Eppure il mio amico non aveva l'animo di un assassino. Le mie parole lo avevano gettato in una breve estasi (una delle più strane, del resto: l'estasi di uno scherzo).
Siamo abituati a collegare la nozione di estasi ai grandi momenti mistici. Ma c'è anche l'estasi quotidiana, banale, volgare: l'estasi della collera, l'estasi della velocità al volante, l'estasi provocata dai rumori assordanti, l'estasi da partita di calcio. Vivere è un gravoso, continuo sforzo per non perdere di vista se stessi, per essere sempre solidamente presenti in se stessi, nella propria stásis. Basta uscire un attimo da se stessi per sconfinare nel regno della morte.
 
Mi chiedo se Adorno abbia mai provato il minimo piacere ad ascoltare la musica di Stravinskij. Di piaceri, a sentir lui, la musica di Stravinskij può darne uno solo: «il piacere perverso della privazione». Essa è infatti tutta un «privarsi»: dell'espressività, della sonorità orchestrale, della tecnica di sviluppo; essa deforma le vecchie forme con il suo «sguardo maligno»; è «ghignante», inetta all'invenzione, capace solo di «ironia», «caricatura», «parodia»; non è altro che «negazione», non soltanto della musica dell'Ottocento ma della musica in senso lato («la musica di Stravinskij è una musica da cui la musica è stata bandita» dice Adorno).
Che strano... E la felicità che promana da questa musica?
Ricordo la mostra di Picasso che si tenne a Praga verso la metà degli anni Sessanta. C'era un quadro che mi è rimasto impresso: un uomo e una donna mangiano un'anguria; la donna è seduta e l'uomo sdraiato per terra a gambe all'aria, in un gesto di gioia indicibile. L'incantevole spensieratezza con cui l'insieme è stato dipinto mi ha indotto a pensare che nel dipingere il quadro l'artista provasse la stessa gioia dell'uomo che se ne sta a gambe all'aria.
La felicità dell'artista che dipinge l'uomo con le gambe alzate è una felicità raddoppiata: è la felicità di contemplare sorridendo la felicità. A me interessa proprio quel sorriso: nella felicità dell'uomo con le gambe all'aria l'artista intravede una meravigliosa goccia di comicità, e questo lo riempie di allegria. Il sorriso risveglia in lui un'immaginazione gioiosa e irresponsabile - irresponsabile quanto il gesto dell'uomo che alza le gambe. La felicità di cui sto parlando si pone dunque sotto il segno dello humour, ed è proprio questo a distinguerla dalla felicità delle altre epoche dell'arte, dalla felicità romantica del Tristano di Wagner, per esempio, o dalla felicità idilliaca di un Filemone e di una Bauci. (Non sarà stata una fatale mancanza di senso dell'umorismo a rendere Adorno così insensibile alla musica di Stravinskij?).
Beethoven ha scritto l'«Inno alla gioia», ma questa gioia beethoveniana è un rito durante il quale siamo tenuti a stare rispettosamente sull'attenti. I rondò e i minuetti delle sinfonie classiche sono, se vogliamo, un invito alla danza, ma la felicità di cui parlo e che mi sta a cuore non vuole dichiararsi tale mediante il gesto collettivo di una danza. Ecco perché nessuna polka mi dà felicità tranne la Circus Polka di Stravinskij, che non è stata scritta per essere ballata ma per essere ascoltata a gambe all'aria.
Nell'arte moderna vi sono opere che hanno scoperto una inimitabile felicità dell'essere, felicità che si manifesta come euforica irresponsabilità della fantasia, come piacere di inventare, di sorprendere, finanche di scandalizzare con un'invenzione. Potremmo elencare tante opere d'arte impregnate di questa felicità: accanto a Stravinskij (Petruska, Les noces, Renard, il Capriccio per pianoforte e orchestra, il Concerto per violino, ecc.), l'intera opera di Miró; e poi i quadri di Klee, di Dufy, di Dubuffet; alcune prose di Apollinaire; l'ultimo Janácek (le Filastrocche, la suite per sestetto di strumenti a fiato, Mládí, l'opera La volpe astuta); certe composizioni di Milhaud e l'opera buffa Les mamelles de Tirèsias di Poulenc, su testo di Apollinaire: scritta verso la fine della guerra, fu condannata da coloro che ritenevano scandaloso celebrare la liberazione con una sorta di scherzo. L'epoca della felicità (di quella rara felicità illuminata dallo humour) era infatti finita: dopo la seconda guerra mondiale, solo maestri ormai vecchissimi come Matisse e Picasso hanno saputo, in contrasto con lo spirito dei tempi, mantenerla viva nella loro arte.
In questa enumerazione delle grandi opere della felicità non posso dimenticare il jazz. L'intero repertorio della musica jazz consiste in variazioni su un numero relativamente limitato di melodie, ed è sempre possibile intravedere un sorriso che si è intrufolato fra la melodia originaria e l'elaborazione. I grandi maestri del jazz, che amavano come Stravinskij l'arte della trascrizione ludica, diedero versioni personali non soltanto dei vecchi song negri, ma anche di Bach, Mozart, Chopin; Ellington trascrive musiche di Cajkovskij e di Grieg, e per la sua Uwis Suite compone una variante di polka paesana affine, nello spirito, a Petruska. Quel sorriso, presente anche se invisibile nello spazio che separa Ellington dal suo «ritratto» di Grieg, è invece visibilissimo sui volti dei musicisti del vecchio dixieland: quando arriva il momento del suo assolo (che è sempre parzialmente improvvisato e quindi riserva sempre qualche sorpresa), lo strumentista fa un passo avanti, per cedere poi il posto a un altro e abbandonarsi a sua volta al piacere dell'ascolto (al piacere di altre sorprese).
Nei concerti di jazz si applaude. Applaudire significa: ti ho ascoltato attentamente e adesso ti dichiaro la mia stima. Con la musica cosiddetta rock le cose cambiano. Fatto importante: ai concerti rock non si applaude. Applaudire sarebbe quasi un sacrilegio perché in tal modo si manifesterebbe la distanza critica fra chi suona e chi ascolta; lì non si va per giudicare e apprezzare ma per abbandonarsi alla musica, per urlare con i musicisti, per confondersi con loro; quel che si cerca è l'identificazione, non il piacere; la commozione, non la felicità. Lì si va per estasiarsi: il ritmo è battuto con violenza e con ossessiva regolarità, i motivi melodici sono brevi e ripetuti di continuo, i contrasti dinamici non esistono, tutto è fortissimo, il canto privilegia i registri più acuti e assomiglia al grido. Non siamo più nei localini da ballo dove la musica avvolge le coppie nella loro intimità; siamo in grandi sale, in stadi, pigiati gli uni sugli altri, e anche quando si balla non ci sono coppie: ciascuno si muove da solo e con tutti al tempo stesso. La musica trasforma gli individui in un solo corpo collettivo: in questo caso parlare di individualismo e di edonismo è soltanto una delle auto-mistificazioni della nostra epoca, la quale - al pari di tutte le epoche - vuole vedersi diversa da ciò che è.
Milan Kundera
(da "Improvvisazione in omaggio a Stravinskij" in "I testamenti traditi", Adelphi, 1994)

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