Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 27, 2010

La casa di Goebbels

In prima italiana al Teatro Comunale di Bolzano il nuovo lavoro del compositore tedesco Heiner Goebbels con l'Hilliard Ensemble.
Ambizioso, non teme le sfide. Ed è questo che ci piace di Heiner Goebbels, compositore di cui nessuno mette più in dubbio una parte da protagonista nella scena musicale contemporanea. E' pronto per la prima italiana (dopo il debutto a Edimburgo) il suo ultimo lavoro I went to the house but did not enter, in programma a Bolzano il 4 e 5 dicembre, grazie a una coproduzione guidata dal Théatre Vidy-Lausanne con i teatri di Bolzano, appunto, Lussemburgo, Francoforte e Strasburgo. "Concerto scenico in tre quadri», così recita il sottotitolo di un lavoro che segue il ritmo tripartito di una triplice scelta letteraria, caduta su T. S. Eliot, Samuel Beckett e Maurice Blanchot. Sul palco, nel consueto ruolo di cantanti e in quello inedito di attori, David James, Roger Covey Crump, Steven Harrold, Cordon Jones, ovvero l'Hilliard Ensemble.

I went to the house but did not enter: il punto di vista dell'autore. Ci può dire qualcosa di ciò che vedremo sul palcoscenico?
«Vi posso dire che vedrete un salone, una casa, una stanza d'hotel, ma ciò non significa nulla. Così è meglio che non dica nulla. Quello che vedrete sarà un'esperienza importante tanto quanto quello che ascolterete, e nemmeno io saprei dire cosa possa essere più importante. Con il set designer Klaus Grünbert abbiamo tentato di creare 'immagini' che possano dare spazio alla nostra 'immaginazione', piuttosto che immagini che avessero un significato preciso e, conseguentemente, 'narrativo'».
E a proposito della presenza scenica dell'Hilliard Ensemble?
«Senza dubbio è la prima volta che i quattro cantanti dell'Hilliard Ensemble, che sono abituati a cantare musica medievale in chiesa da trent'anni, sono impegnati in una performance teatrale. E se la cavano davvero bene: una sorpresa per me e per loro stessi! ».
Nella Sua carriera ha sempre mixato differenti mezzi espressivi: prima di tutto la musica, ma anche il teatro, la letteratura, la poesia, anche la danza: come ha bilanciato questi elementi?
«Io mi auguro di essere riuscito, a dare a tutte le istanze espressive un'eguale importanza. Una cosa che mi piace molto è quella di non dare al pubblico la certezza di ciò che accadrà, di disattendere le aspettative. Sarà un concerto? Una performance? Un'installazione? Una pièce teatrale? Ogni format richiede un diverso approccio percettivo. E' già una gran differenza, ad esempio, quella che passa tra l'ascolto musicale e quello di un testo verbale. I went to the house but did not enter ruota proprio attorno all'incertezza tra queste due categorie - testo letterario o musicale -, specialmente nella sezione tratta da Beckett. Sono profondamente convinto che in questi momenti di piacevole irritazione il pubblico si disponga meglio nei confronti dell'esperienza artistica, perché in questi momenti cambiano decisamente le nostre convenzionali gerarchie percettive. Puoi trovarti a non sapere con precisione cosa fare: è più importante ascoltare la qualità musicale di un discorso invece che comprendere un testo, o le due cose si intrecciano? Come decidere? A cosa affidarsi, al contenuto o alla forma? La parola o l'intonazione con cui viene detta? Il compositore o il poeta? Il suono o l'immagine?».
Che rapporto c'è tra i testi letterari e l'uso che ne ha fatto sul palco?
«Quando ho composto quest'opera ho tentato di mantenere il piacere e la libertà dell'immaginazione che hai quando leggi. Spero di esserci riuscito anche con i testi di Gertrude Stein in Hashirigaki e con quelli di Elias Canetti in Eraritiaritjaka, che erano entrambi testi non drammatici, scritti per essere letti, non per essere rappresentati. Quando vedi testi recitati sul palco, che sono scritti per il teatro, li identifichi con l'attore o il cantante. Quando ascolti un testo, non drammatico, questo prende, comunque forma nella tua mente. Ed è per questo che mi piace».
Due degli autori che ha scelto per, questo lavoro (Eliot e Beckett) sono strettamente legati all'idea di "crisi". Benché separati da molti anni, richiamano entrambi un sentimento comune relativo ai cambiamenti filosofici del Novecento, al pensiero post-nietzscheano, al mondo disorientato dopo la "morte di Dio" (ciò vale almeno per il primo Eliot, prima della conversione). Perché questa scelta?
«E' vero: tutti e tre i testi, infatti, pur nelle loro differenze, affrontano il tema dell'indecisione e del fallimento, The Love Song of J. Alfred Prufrock non è proprio una canzone d'amore, la storia di Maurice Blanchot è piuttosto spiazzante e il testo di Beckett... cosa dovrebbe essere? Un testo in prosa, una preghiera, una litania? Li ho scelti perché riflettono tutto ciò nella loro forma estetica e sfidano le mie decisioni compositive».
In che modo questa scelta si rapporta al Suo pensiero filosofico e religioso?
«Non mi considero religioso. ma quando senti cantare l'Hilliard Ensemble non puoi certo eliminare il contesto in cui questa cultura vocale si è sviluppata e nella quale molti di noi sono cresciuti (io ad esempio sono cresciuto in un ambiente fortemente cattolico). Ma nel mondo contemporaneo, quello che Guy Debord ha definito "società dello spettacolo', può essere d'aiuto e sollievo trovare nuove e laiche maniere di costruire alcune importanti forme di ritualità e di concentrazione meditativa, che abbiamo perduto. In questo senso questo lavoro è il più silenzioso e fragile che abbia mai composto».
I went to the house but did not enter: cosa ci può dire del titolo?
«E' una citazione dalla storia di Mauriche Blanchot (ma è poi davvero una storia?). Già in questo solo verso si può intuire la strategia tesa a disattendere le aspettative del lettore e la sua stretta relazione con la scrittura di Kafka. Proprio Blanchot fu infatti tra i primi critici a sdoganare Kafka in Francia. Da qui si può vedere il gusto che provo a mia volta - come dicevo prima - nel disattendere le aspettative del pubblico e nel crearne di nuove allo stesso tempo».
Due scrittori inglesi e uno francese: che relazione c'è tra questi e un compositore tedesco? Crede che esistano radici comuni per la cultura europea? Ed è la cultura europea quella da cui attinge o guarda anche al di fuori dei Vecchio Continente?
«Sono spesso attratto da quello che non conosco. E' per questo che ho lavorato con musicisti greci, africani, iraniani, giapponesi, tuttavia senza nascondere la mia prospettiva europea e conseguentemente la mia distanza. Invece di insistere su un vago concetto di radici comuni - in fondo privo di senso e poco credibile - faremmo meglio a imparare a diffondere il rispetto e la tolleranza verso chi e cosa non conosciamo. Secondo Blanchot: "L'altro non è tuo fratello"»
Usiamo un termine spesso abusato: 'postmodernismo'. 'Compositore postmoderno può essere sinonimo di 'compositore libero e aperto'?
«A dire il vero il termine potrebbe essere usato anche per un compositore per cui "nulla funziona", che lavora in modo arbitrario facendo a meno di importanti criteri di lavoro e di gusto. Io penso e spero di non appartenere a questa tipologia».
Il debutto italiano della Sua opera sarà a Bolzano: (una città che guarda al contesto mitteleuropeo): cosa conosce della situazione musicale italiana? Secondo Lei perchè gli organizzatori italiani sono così spaventati dalla musica contemporanea? E' un problema di tradizione culturale? E' un problema politico?
«Non so dire se la situazione italiana sia diversa o più difficile di quella tedesca. Senza dubbio gli organizzatori spesso sottovalutanio il pubblico e non hanno fiducia nei nuovi programmi. Ma, al di là delle questioni economiche, il problema riguarda anche la musica in sé. Nel senso che i compositori accademici spesso lavorano in uno splendido isolamento e non sono in connessione con la realtà in cui vivono. 0, peggio ancora, tendono ad avere un atteggiamento 'didattico' nei confronti del pubblico. Questo atteggiamente di superiorità chiude lo spazio all'ascoltatore, e fa sì che una composizione non sia un invito ad una forte esperienza estetica».

intervista di Andrea Ravagnan ("il giornale della musica", Anno XXIV n.254, dicembre 2008)

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