Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 14, 2009

Luciano Berio: oltre l'aneddoto

Queste righe sono insieme il mio ricordo di una grande personalità, di un Maestro, con me invariabilmente gentile e affettuoso, e il tentativo provvisorio di cucire insieme un'idea mia di Berio, della sua musica, come si è venuta formando, nell'ascolto ma anche nella conversazione, nel corso degli incontri e delle interviste.

Luciano Berio viveva a Firenze, ma c'era e non c'era; agiva su una scena ben più ampia; stava sempre scrivendo un nuovo pezzo, una nuova opera, per la Scala, per il Concertgebouw, per Salisburgo; stava dando l'assalto al tempio classico dell'Accademia di Santa Cecilia; era potente, polemico, ascoltato e - per il poco e nei termini in cui la musica colta contemporanea continua a fare notizia - faceva notizia. Ai giornali interessavano il paradosso, il colore, l'affondo (che non gli era piaciuto per niente il concerto di Bob Dylan per il Papa; che l'incultura musicale della classe politica italiana è spaventosa; cosa avrebbe fatto del famoso auditorium romano; cosa avrebbe fatto a Santa Cecilia), eppure nella mezz'ora o più di un'intervista tendevo a sbrigare in fretta il colore giornalistico, da cui si fanno i titoli, e cercavo, a mio esclusivo beneficio, di rilanciare e allargare le questioni, insomma di fare le domande che si fanno a un Maestro e di riflettere sulle risposte. Molte volte non ero d'accordo ma, come avviene con i veri Maestri, la lezione agiva in profondità e in direzioni diverse. Il modo con cui guardo un frammento vivido di immagine staccarsi dalla superficie grigia, che rappresenta le immagini e i colori perduti, in un affresco restaurato, questo modo è cambiato a causa di Rendering, il geniale e poetico "restauro" fatto da Luciano Berio dei frammenti di un'incompiuta sinfonia di Schubert.
Restauri: l'ultima volta che ho avuto modo di parlare con Berio fu a proposito del suo nuovo finale per la Turandot di Giacomo Puccini, alternativo a quello, non bello, di Franco Alfano. Berio ha lavorato - riscritto, orchestrato, completato, "restaurato", immerso nel bagno elettroacustico, riorganizzato sulla base di frammenti superstiti - su Monteverdi, Purcell, Boccherini, Weill, De Falla, poi, mirando più in alto, Schubert, Mahler, Mozart (la Zaide), Brahms. Il che è sempre stato inteso come una riprova abbagliante dell'altissimo grado in cui Berio possedeva i saperi "artigianali" della composizione e tutte le forme storiche e le espressioni linguistiche della musica; ma credo che questo facesse parte integrante di una visione via via più profonda, affettuosa e malinconica della bellezza musicale.
Per me quest'aspetto di Berio "restauratore" fa tutt'uno con certi aspetti della sua fisionomia di compositore, in particolare con quella sorta di velo delle Grazie che diventa materia musicale fluida e rarefatta, sullo sfondo delle linee orizzontali in maggior evidenza, in pezzi come Sinfonia, Ofanim, Agnus, Corale, Requies, Voci. Un aspetto dell'arte di Berio fin troppo sommerso dalle interpretazioni legate alla sua musica anni Sessanta: all'aggressiva energia gestuale e/o idiomatica delle Sequenze, ad esempio.
Certamente dietro la sua arte c'è un percorso di fughe dai vicoli ciechi, dagli steccati, dai divieti, dall'altera trascendenza della generazione musicale "strutturalista" (di cui peraltro condivideva in buona misura la cultura e le idee); e questa però non ha niente a che vedere con certe riappropriazioni e mimesi gaglioffe e cicisbee, e tutto a che vedere con un umanistico - prima che artigianale - rifiuto delle categorie "adorniane" imperniate sulla negazione; ma soprattutto molto a che vedere con il savoir faire artistico scaltrito di chi le tendenze le intuiva e valorizzava prima degli altri. Pensiamo ai Folk Songs in cui nel 1964 Berio si mostra capace di interpretare con felicità qualcosa che sarebbe diventato evidente qualche decennio dopo: la sponda "etnica". Agnus mi è sempre suonato come la versione nobile del tipico e spesso banale caroleggiare minimalista che poi ci ha così velocemente stufato; Il ritorno degli Snovidenia, un'anticipazione di tendenze in varie guise "neoromantiche".
La sua idea della drammaturgia musicale è da intendere in senso esteso, tale da coinvolgere tutte le raffinate implicazioni del rapporto musica-testo-narrazione- rappresentazione, e non necessariamente l'opera. Al tempo in cui scriveva Outis per la Scala, una decina di anni fa, l'opera del Novecento che Berio mi disse di ammirare di più era La carriera di un libertino di Igor Stravinskij, "per i tanti congedi che contiene". Congedo implica fine, morte, ritrovamento, riassemblamento di relitti; una metafora che è chiarissima nel teatro musicale virtuale da camera di Opera (un tenore, una corsia d'ospedale, il naufragio del Titanic) su testo di Umberto Eco (1970), e in Un re in ascolto su testo di Italo Calvino (1984), che incrocia suggestioni diverse, da Barthes a Shakespeare. Come Stravinskij, non a caso, Berio ha quasi sempre cercato collaborazioni forti (Sanguineti, Eco, Calvino) in tutto ciò che ha scritto per la musica che si suona con (su) una voce, un testo, una scena, una storia da raccontare, inseguendo l'idea stravinskijana del progetto a più mani: scantonando dal mito dell'organicità della "opera d'arte totale", ma anzi cercando ciò che prende vita nel cortocircuito di idee, discipline, sensibilità diverse, nuovi nessi di significato scaturenti dall'incrocio fra gesti, materiali, spunti diversi: la musica colta e quella popolare, la vocalità lirica e no, i burattini, i cantastorie, le tracce del rock.

di Elisabetta Torselli (www.drammaturgia.it)

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