Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, ottobre 04, 2009

Claude Debussy: Vincent d'Indy

Le persone dogmatiche definirebbero L'Etranger «una elevata e pura manifestazione d'arte»; secondo il mio umile parere, è qualcosa di meglio.
E' la liberazione da formule senza dubbio pure e altere, ma che conservavano la freddezza, l'azzurro, la finezza e la durezza di un meccanismo d'acciaio. La musica era stupenda, ma come prigioniera, e di una maestria così sorprendente che sarebbe parso quasi sconveniente abbandonarsi all'emozione.
Qualunque cosa ne sia stata detta, l'influenza di Wagner non fu mai profonda su d'Indy: l'eroico istrionismo dell'uno non poté mai trovare un'alleata nella probità artistica dell'altro. Sebbene Fervaal sia ancora sottomesso alla tradizione wagneriana, se ne difende con la sua coscienza, col suo disdegno contro l'isterica magniloquenza che affatica gli eroi wagneriani.
So bene che si rimprovererà a Vincent d'Indy di essersi liberato, di non prediligere più il fuoco dell'«Appuntamento dei temi», gioia dei vecchi wagneriani, informati in anticipo da opportuni prontuari.
Perché, al contrario, non è completamente affrancato da quella necessità di spiegare, di sottolineare tutto, che talvolta appesantisce le più belle scene dell'Etranger?
Perché tanta musica per un doganiere, personaggio aneddotico, di cui comprendo il significato in opposizione all'umanità straripante dell'Etranger, ma che tuttavia avremmo desiderato più insignificante: uno di quei vaghi esseri umani preoccupati soltanto della loro misera pelle?
L'azione drammatica dell'Etranger, malgrado la sua semplicità, non è un brutale fatto di cronaca. Si svolge in riva al mare, in un piccolo villaggio di pescatori. Un uomo è venuto da qualche tempo a stabilirsi in questo villaggio: viene chiamato lo Straniero, perché nessuno conosce il suo nome; è terribilmente antipatico, taciturno, non frequenta nessuno; il suo berretto si fregia di uno smeraldo che naturalmente gli procura una fama di stregone. Egli si sforza di mostrarsi buono e servizievole, offre la sua parte di pesca a coloro che sono tornati con le reti vuote; cerca di liberare un disgraziato che è condotto in prigione; ma l'autorità non ama i simbolisti e i pescatori neppure.
Con due frasi dalle linee semplici, Vincent d'Indy ha caratterizzato molto efficacemente il personaggio dello Straniero. E' un eroe cristiano, che si collega direttamente a quella catena di martiri che svolgono sulla terra una missione di carità ispirata da Dio. Lo Straniero è dunque il fedele servitore che il Maestro ha voluto tentare con l'amore femminile, il cui cuore ha ceduto, e che soltanto la morte potrà riscattare.
Mai la musica moderna ha trovato un'espressione più profondamente devota, più cristianamente caritatevole. In verità, è una convinzione profonda quella che ispira a d'Indy queste due frasi di sovrana bontà; esse illuminano il senso profondo del dramma meglio di qualsiasi commento sinfonico.
Una fanciulla, chiamata Vita, è attratta dal mistero e dalla tristezza sognatrice di quest'uomo; essa d'altronde ama profondamente il mare, abituale confidente della sua malinconia, dei suoi segreti desideri. Vita è fidanzata ad André, il bel doganiere che, in una scena familiare, rivela un animo di egoista soddisfatto. E un funzionario che non capirà mai come una fanciulla possa sognare uno che non sia un bel doganiere.
In una scena in cui Vita e lo Straniero s'incontrano nasce il loro legame. Vita confessa il suo amore. Il mare non è più il suo confidente, da quando lo Straniero è apparso... Profondamente turbato, quest'ultimo si lascia sfuggire il suo doloroso segreto: «Adieu, Vita, le bonheur je te souhaite... Moi je pars dès demain, car je t'aime, je t'aime, oui je t'aime d'amour, et... tu le savais bien».
In effetti, Vita è giovane, Vita è fidanzata. Lo Straniero, pronunciando quelle parole d'amore, ha perduto la purezza di cuore che costituiva la sua forza. La solitudine morale è infatti necessaria alla missione redentrice ch'egli si è assunta. Consacrarsi a tutti impedisce di consacrarsi a uno solo. Non è cosa allegra dover fare tutti i giorni miracoli. Lo Straniero è vecchio, e questa preoccupazione puramente umana non mi dispiace in un personaggio miracoloso.
L'aver dimenticato per un istante la sua missione gli impedirà in avvenire di continuare la sua opera di carità. Egli dona a Vita lo smeraldo oramai inutile e le dice addio per sempre. Scossa da singhiozzi, Vita lancia nel mare inquietante, da cui s'innalzano voci misteriose, lo smeraldo sacro, causa della sua sventura. Il mare si richiude su quella pietra, con gioia selvaggia di tutte le sue onde, per la riconquista di un talismano che un tempo lo costringeva a placarsi. La tempesta si scatena, una barca è in pericolo. Come si può immaginare, i bravi pescatori del primo atto non oseranno portarle soccorso. André, il bel doganiere, approfitta dello smarrimento generale per mostrare a Vita i suoi nuovi galloni e farle dono di un braccialetto di fine argento. Questo doganiere abusa dei diritti dell'egoismo, e Vita gli dimostra con il suo silenzio quanto sia insopportabile. André si allontana senza vergogna, mentre sopraggiunge lo Straniero, richiamato dal pericolo, ordina che gli sia apprestata una barca e sta per avventurarsi da solo in mare, poiché nessuno osa sacrificarsi con lui. Vita si slancia, e con un grido d'amore fra i più belli che mai si siano uditi accompagna lo Straniero. Si imbarcano, scompaiono fra le onde infuriate, che non hanno più il potere di placare. Un vecchio marinaio segue con lo sguardo la loro lotta. Improvvisamente, la fune che li univa alla riva si spezza: il vecchio marinaio si toglie il berretto, recitando le parole del De Profundis. Le due anime hanno trovato riposo nella morte, che sola ha avuto pietà del loro impossibile amore.
Chi lo voglia, è libero di cercare in questa vicenda simboli insondabili. A me piace rilevare in essa un'umanità che Vincent d'Indy ha rivestita di simboli soltanto per rendere più profondo l'eterno dissidio fra la Bellezza e la volgarità delle folle.
Senza attardarmi in questioni tecniche, desidero rendere omaggio alla serena bontà che aleggia su tutta quest'opera, allo sforzo di volontà dell'autore nell'evitare qualsiasi complicazione, e soprattutto al tranquillo ardimento di Vincent d'Indy nel tentativo di superare se stesso.
E se poco fa lamentavo un certo eccesso di musica, è perché qua e là esso mi sembra nuocere a quella completa « fioritura » che conferisce un'indimenticabile bellezza a tante pagine dell'Etranger. Quest'opera, insomma, è una lezione ammirevole per coloro che credono a quella brutale estetica d'importazione, che consiste nel soffocare la musica sotto cumuli di verismo.
Il Théátre de la Mormaie e i suoi direttori si sono conquistati un grande onore presentando Etranger con una cura artistica degna di ogni elogio - si sarebbe forse potuto esigere un maggior rigore nella scenografia. Ma dobbiamo essere riconoscenti per una iniziativa che, anche ai giorni nostri, può definirsi coraggiosa.
Non posso che lodare Sylvain Dupuis e la sua orchestra per la loro intelligenza, così preziosa per il musicista; inoltre Albert e Friché hanno contribuito al trionfo che ha salutato il nome dell'autore. Tutti, del resto, hanno testimoniato uno zelo commovente, e non vedo perché non dovremmo felicitarci con la città di Bruxelles.

Claude Debussy (da "Il Signor Croche antidilettante", SE, 2000)

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