Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 18, 2008

Verdi: Tre volte Requiem

Abbado, Gergiev, Muti: tre cavalieri per Verdi. Tre volte Messa di Requiem: a Berlino, a Parma, a Milano, e dalle ultime due città in replica a Torino e a Vienna. La Messa di Requiem è diventata in tutto il mondo, nel giorno dell'anniversario della morte del suo autore, l'omaggio alla memoria: l'hanno eseguita ovunque e molto più che il Requiem di Mozart, nel bicentenario del 1991, forse perché come nessun altra, la Messa di Requiem di Verdi è palcoscenico e preghiera, e in un sol colpo dice l'italianità dei teatrini a palchetti, delle chiese, delle piazze. E forse per questo è parsa un po' disorientante, e disorientata, la lettura offerta da Valerij Gergiev nel Duomo di Parma, con l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e con il Coro Kirov del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. A segnarne la linea guida era quest'ultimo, autentico protagonista sotto il profilo della presenza emotiva e della disciplina tecnica. Ma quegli assiemi ora incandescenti (nel Dies irae) ora di cenere (nel Requiem aeternam finale) presentavano una viscerale somiglianza col misticismo orientale dei Vespri di Rachmaninov: cantavano Verdi, i magnifici russi, o la Liturgia di San Giovanni Crisostomo di Ciaikovski? Gergiev è un direttore dionisiaco e trascinante, figura carismatica e di indubbia suggestione sui podi; ma non è ancora "tra i massimi interpreti verdiani del nostro tempo", come lo vuole incoronato il "Verdi Festival" di Parma. Che non ha fatto male a scommettere su di lui (pur oggettivamente alle prime armi, nel repertorio verdiano), ma ha arrischiato nella scelta dei solisti e nell'abbinamento di due realtà musicali tanto lontane, come l'Orchestra della Rai e il Coro del Kirov. Leggere in locandina che questa Messa di Requiem veniva data nell'edizione critica di David Rosen, e poi ascoltare gli insopportabili portamenti di Alessandra Marc e le imprecisioni ritmiche con Larissa Diadkova (meglio se la cavavano i più rodati Vincenzo La Scola e Roberto Scandiuzzi), diventava a quel punto imbarazzante.
Ben altra partita si giocava tra Milano e Berlino: qui sì il confronto aveva un senso, e diventava interessante. Abbado e Muti: si tira purtroppo fuori per l'ennesima volta un binomio logorato su inutili bla-bla. Ma non si offre alternativa, questa volta (e per altro non si parlerà che di musica): a duellare su Verdi - oggi - possono solo i due. Svettano come giganti, e le due loro Messe di Requiem sono arrivate come approdo di una lunga riflessione, fatta non solo su note e gesto. Pur nel solco stilisticamente comune, questi Requiem suonavano ben diversi: uno asciutto e tragico, molto Novecento nei disegni ritmici scavati stretti (il levare in sedicesimi di "perpetua", ad esempio, invocata a fior di labbra per la luce eterna), quasi a fare combaciare nichilismo e speranza; l'altro terso sulla polifonia cinquecentesca, soffice nei colori, fuori dal magma del Dies Irae, scattante nei tempi, fin quasi alla vertigine nelle fughe miracolose. Riccardo Muti ha diretto la Messa di Requiem a Milano, nella Basilica di San Marco, il luogo dove venne tenuta a battesimo da Verdi stesso, e con l'Orchestra e il Coro della Scala che rappresentano fisicamente l'eredità di oltre cent'anni di tradizione esecutiva. Verdi è davvero per loro il pane, come testimonia la fragranza con cui viene restituito, tradotto nella eleganza di scuola degli archi, morbidi e avvolgenti, dal fraseggio che canta già da solo nel disegno delle arcate, e negli impasti campestri di legni e ottoni, sempre "en plain aire". Si apriva a squarci inediti di luce il nuovo Requiem, certamente anche per l'influenza esercitata dal coro, che porgeva sempre come parola viva il latino del testo (anche nella sillabazione "senza misura" del Libera me), e svelava un lato meno cupo della scrittura verdiana: il Sanctus, staccato rapidissimo e alato, un volo di cherubini nell'azzurro limpido, faceva da chiave di volta per tutta la seconda parte della Messa. Intrecciata di luci e ombre, grazie alla flessibilità espressiva dei solisti, Violeta Urmana, Ramon Vargas, Ferruccio Furlanetto e la luminosa Barbara Frittoli; quasi fiammella palpitante, incerta sugli ultimi tenaci bagliori, nell'invocazione tenerissima di Dimitra Theodossiou, giovane soprano della seconda replica milanese.
Un quartetto di belli era a Berlino, tutti però - tranne Daniela Barcellona, bravissima, e in guanti neri, addirittura - da bocciare in solfeggio e in latino. La teatralità di Angela Gheorghiu e Roberto Alagna pareva fuori luogo sui significati del testo, pur manifestando oasi timbriche avvincenti; né tecnica né colore offriva invece Julian Konstantinov. Pure, grazie alla concentrazione scavata di Claudio Abbado, la Messa di Requiem col suono lucido dei Berliner e la forza severa dei tre Cori riuniti (l'Eric Erisson Kammerchor e l'Orféon Donostiarra e il Coro della Radio svedese) si stagliava con forza impressionante; e il tempo tragico del Libera me finale, a un passo dall'abisso. Giuseppe Verdi, "Messa di Requiem"; Berliner Philharmoniker, direttore Claudio Abbado, Berlino, Philharmonie, 25 e 27 gennaio; Orchestra Nazionale della Rai, direttore Valerj Gergiev, Parma, Duomo, 27 gennaio e Torino, Lingotto, 30 gennaio; Orchestra del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Muti, Milano, Basilica di San Marco, 27 e 28 gennaio, Vienna, Musikverein, 30 e 31 gennaio.

di Carla Moreni (Il Sole 24 Ore, 4/2/2001)

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