Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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sabato, ottobre 13, 2007

Hans Werner Henze: Phaedra

Commovente successo a Berlino per l'opera più recente del compositore. Phaedra è il coronamento di una poetica da sempre affascinata dalla classicità greca.

Nella sessantennale carriera di Hans Werner Henze la classicità è un'utopia che lo spinge a lasciare le macerie della Germania postbellica all'inizio degli anni Cinquanta per trasferirsi in Italia, culla dei miti e della bellezza; il riferimento al mondo classico è costante nella sua produzione e trova il suo coronamento in quest'ultimo lavoro, Phaedra. Commissionata dalla berlinese Staatsoper Unter den Linden e dai Berliner Festspiele con il Théátre Royal de la Monnaie di Bruxelles, le Wiener Festwochen e l'Alte Oper di Francoforte, la quattordicesima opera di Henze arriva a quattro anni dall'Upupa o il trionfo dell'amor filiale, accolta con grande successo al Festival di Salisburgo nel 2004. Quattro anni segnati dalla perdita di persone care e dalla grave malattia che ha colto Henze a metà del lavoro e l'ha costretto a sospendere per un lungo periodo la composizione del secondo atto. Eppure, a dispetto della sua tormentata gestazione, questa nuova opera si fa ammirare per il grande equilibrio e le classiche simmetrie raggiunti con magistrale economia di mezzi espressivi.
E proprio attraverso questi elementi, prima ancora che per il soggetto, Henze sembra dare un senso all'utopia della sua esistenza. Tutto in Phaedra è costruito sulla coniugazione di opposti, su di un'aurea dualità che conferisce a questo lavoro la serena nobiltà delle costruzioni classiche. La duplice natura è esplicitata già nella definizione: «Konzertoper», concerto e opera. Due atti di uguale durata (circa 45 minuti), ma in qualche modo opposti per colore, di compostezza apollinea il primo e di dionisiaca inquietudine il secondo. Due atti scritti per un organico ridotto di soli 23 strumentisti per una trentina di strumenti e 5 cantanti-interpreti. Dualità e simmetrie si ritrovano persino nella strumentazione, "henzianamente" concepita in funzione drammaturgica e articolata sui due grandi blocchi degli ottoni - che evocano la regalità del mondo di Fedra - e dei legni - che restituiscono il colore dei boschi nei quali caccia Ippolito - cui si aggiunge un significativo contributo delle percussioni che tingono di arcaico alcuni passaggi significativi dell'opera.

Essenza classica
In ammirevole sintonia con l'essenzialità della musica di Henze, il librettista Christian Lehnert restringe il dramma a pochi personaggi: gli umani Fedra e Ippolito più i loro alter ego divini, Afrodite ed Artemide; e il Minotauro, sintesi delle due nature, che compare solo alla fine di tutto. Più che narrare attraverso una drammaturgia strutturata, Lehnert evoca la vicenda per grandi blocchi, reminiscenze del mito di Fedra così come è stato tramandato nel corso dei secoli da Euripide, Seneca, Racine fino alla drammaturga inglese Sarah Kane. Più che alle reminescenze classiche del testo di Lehnert, il regista Peter Mussbach è sembrato interessato a dare un senso concreto al concetto di Konzertoper e realizza un'abile sintesi fra due generi in larga misura antitetici. Rovesciando la convenzione dello spettacolo operistico, colloca l'orchestra alle spalle del pubblico e fa raggiungere agli interpreti la scena lungo un catwalk che attraversa la sala. La scena è spesso coperta interamente da una grande superficie riflettente che restituisce alla visione del pubblico l'orchestra e la severa cornice neoclassica della sala della Staatstoper: è il concerto che si fa teatro, al quale gli interpreti/personaggi tendono e nel quale si smaterializzano.
Nulla nella visione di Mussbach evoca l'antichità classica: né i costumi "da concerto" disegnati da Bernd Skodzig né lo spazio di luce ed ombra concepito da Olafur Eliasson, uno degli artisti di punta della scena artistica contemponea alla sua prima esperienza teatrale. Grazie ai giochi di luce e alle macchine illusionistiche di Eliasson, Mussbach traduce in immagini di grande forza espressiva le dualità di cui è fatto il testo: nel primo atto i personaggi sono ombre che agiscono in un universo di luci (raffinatissime), mentre nel secondo domina l'oscurità e la frammentazione dei personaggi è concretamente realizzata attraverso grandi prismi che spaccano e moltiplicano i frammenti dei corpi. A tenere le fila musicali della serata è Michael Boder che con grande autorevolezza guida dal fondo della sala la complessa macchina dello spettacolo. La sua è una lettura controllata e rigorosa che si fa apprezzare soprattutto per l'analitica chiarezza con cui guida i 23 perfetti solisti dell'Ensemble Modern, un complesso che vanta una frequentazione relativamente lunga con la musica di Henze che per loro ha scritto il Requiem (1993) e L'heure bleue (2001). Esemplari i cinque interpreti vocali tutti assolutamente calati nei propri ruoli e, soprattutto, adeguati a realizzare il difficile equilibrio di narratori ed interpreti della tragedia. Maria Riccarda Wesseling è una Fedra dura e spietata nel suo trattenuto dolore. Il suo doppio divino, Afrodite, è resa da Marlis Petersen con siderale distacco e controllo perfetto delle asperità della tessitura. John Mark Ainsley disegna con eleganza un Ippolito di profonda umanità e melancolici abbandoni. Axel Köhler tratteggia con la sua vocalità ibrida un'Afrodite tragica e dolente. Malgrado il breve ruolo, si fa notare infine anche la corposa sensualità del Minotauro "in smoking" del giovane baritono Lauri Vasar. Il pubblico ha salutato in piedi con un lungo, affettuoso applauso l'ingresso in sala di Hans Werner Henze. Alla fine dello spettacolo un lungo applauso ancora più caloroso ha festeggiato anche tutti gli interpreti, decretando il pieno successo di questa nuova Phaedra.

Stefano Nardelli ("il giornale della musica", 10/07)

1 commento:

Anonimo ha detto...

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