Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, dicembre 29, 2006

Claudio Monteverdi e l'Accademia Bizantina: un trionfo all'italiana

Il direttore dell'Accademia Bizantina, Ottavio Dantone, spiega la rilettura dell'«Orfeo», «Il ritorno di Ulisse in patria» e «L'incoronazione di Poppea» per i teatri del circuito lombardo.

Sembrava un fatto ineluttabile. Nonostante il crescente successo riportato soprattutto all'estero, i complessi barocchi italiani solo di rado riuscivano a realizzare produzioni di ampio respiro, capaci di coinvolgere attivamente le maggiori istituzioni italiane, compresi i teatri lirici. Succedeva così che produzioni anche di grandissimo rilievo ‑ e in questo senso gli esempi si sprecherebbero ‑ non riuscissero ad avere la meritata diffusione, mortificando il lavoro di musicologi, interpreti e registi a una manciata di repliche, spesso limitate a un ambito geografico molto ndotto. Una situazione poco incoraggiante, soprattutto se paragonata alle ambiziose produzioni dei maggiori complessi
francesi e inglesi spesso protagonisti sui palcoscenici più prestigiosi del mondo. L'inversione di tendenza è avvenuta lo scorso anno,quando il Teatro Ponchielli di Cremona ha varato una coraggiosa integrale delle opere di Monteverdi, affidando
all'Accadernia Bizantina diretta da Ottavio Dantone, il compito di "rileggere" in sequenza l'Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria e L'incoronazione di Poppea per i teatri del circuito lombardo, Cremona, Como, Brescia e Pavia. Il grande successo di pubblico e l'unanime plauso della critica ha convinto quest'anno altri quattro teatri a inserire nella loro programmazione Il ritorno di Ulisse in patria, Reggio Emilia, Bari, Ravenna e Ferrara, creando un vero e proprio fenomeno, che trova ben pochi riscontri anche nel ben più gettonato ambito melodrammatico. Di questo straordinario successo ho avuto modo di parlare con Ottavio Dantone, pochi minuti prima dell'inizio della première cremonese.
Maestro Dantone, oltre a essere l'opera meno nota di Claudio Monteverdi, "Il ritorno di Ulisse in patria" è forse anche l'opera più rischiosa e difficile, perché presenta passioni molto più delicate e sottili rispetto a quelle che caratterizzano l'"Orfeo" e l'"Incoronazione di Poppea". Data questa premessa, come sì è accostato alla partitura monteverdiana dal punto di vista generale?
Con il rispetto di sempre. Devo confessare che, prima di studiarne la partitura per questo progetto, non la conoscevo quasi per nulla. Tuttavia. questo non si è rivelato un problema. Anzi, quando è possibile, preferisco sempre partire da zero. Intendiamoci bene: non conoscere quella che va considerata tra i maggiori capolavori del teatro musicale del primo Seicento non è certamente un vanto, anzi, tuttavia questo mi consente di cogliere ogni minimo dettaglio della partitura.
Un aspetto di grande importanza per un approccio storicamente informato...
Sì. Si tratta di un lavoro immane, che richiede un'enorme costanza ma che, contrariamente a quanto ritengono molti, non lascia spazio a particolari voli pindarici. Nella musica barocca la fantasia è una dote che serve moltissimo soprattutto in seguito, quando si passa alla fase esecutiva. Al contrario, di fronte alla partitura, l'aspetto più importante consiste nel riuscire a interpretare correttamente tutti i segni apposti dal compositore. E' vero, quest'opera è molto difficile perché, rispetto all'Orfeo, dove il recitar cantando era uno status abbastanza generalizzato ‑ fatta eccezione per qualche breve sinfonia nel Ritorno di Ulisse in patria c'è un continuo passaggio stilistico e una grande varietà tra recitar cantando, ariosi e lamenti.
Uno dei tratti distintivi della retorica barocca...
Sì, in un certo senso il lamento può essere definito come una sorta di via di mezzo tra il recitar cantando e l'arioso, denotando una struttura ritmica chiara ma molto libera, spesso interpuntata da brevi pezzi strumentali. Inoltre nel Ritorno di Ulisse in patria c'è una parte buffa che, per quanto ne sappiamo oggi, è la prima della storia della musica. Per tutti questi motivi, quando ci si trova di fronte a un'opera come questa, scritta praticamente su due soli righi, è fondamentale capire quale è il significato retorico e drammaturgico che il compositore vuole comunicarci. Questa fase preparatoria è resa possibile dalla conoscenza dei trattati e delle testimonianze dell'epoca, che ci permettono di capire esattamente quello che il compositore intendeva sia dal punto di vista ritmico, sia da quello prosodico ‑ quello più legato alla «parola» ‑ sia da quello retorico quello relativo in particolare agli affetti ‑ sia da quello della struttura.
A quali risultati conduce un approccio di questo genere?
A una ricostruzione credibile e realistica dell'opera sia sotto il profilo musicale sia sotto l'aspetto più prettamente teatrale. Consideri per esempio i lamenti come quello ‑ bellissimo ‑ di Penelope all'inizio dell'opera. Visto nella sua integrità, ha una struttura retorica classica, con un'introduzione, la narratio e la peroratio, tutte strutture tipiche dell'oratorio barocco, e tutte le figure più usuali, il cromatismo, i salti, vari momenti di tensione, la concitazione, la reiterazione e così via. Si tratta di dettagli tutti scritti in partitura. Sotto questo punto di vista è molto facile riportare in scena un'opera come Il ritorno di Ulisse in patria. Molto difficile è invece renderla comprensibile ancora oggi. Infatti, se i segni vergati in partitura quasi quattro secoli fa da Monteverdi non sono mai andati perduti, rimanendo a disposizione degli interpreti, il rischio maggiore è quello di non afferrarne la portata, un fatto che impedirebbe al pubblico di capire che lingua stiamo parlando.
Da quanto m ha detto, mi pare di capire che ci troviamo di fronte a un'opera molto umana, anche rispetto alla rigidità e artificiosità che spesso il pubblico imputa all'opera barocca in generale.
Su questo aspetto ci tengo a fare una precisazione. Se si parla di opera barocca del Seicento ‑ perché per 'barocco' io intendo quello, essendo il repertorio lirico del XVIII secolo un ambito profondamente diverso tutto quello che accade, sia di ritmico sia di non ritmico, era concepito in modo tale che apparisse naturale. In altre parole mirava a essere la parvenza o l'imitazione di quello che la parola poteva esprimere. Non dimentichiamo che nel caso del Ritorno di Ulisse in patria si parla di recitar cantando e non di solo recitare o di solo cantare. Se si parla di recitar cantando ‑ magari invertendo i termini come facevano spesso in quell'epoca, cantar recitando ‑ si capisce immediatamente che le due cose erano strettamente connesse. Cioè recitar cantando era il modo di cantare più naturale, più simile alla parola. Bisogna guardare la frase, provare a esprimerla in parole, vedere i valori che il compositore e il librettista hanno tentato di trasmetterci e cercare di trasmetterli con la massima libertà possibile. In questo senso sono d'accordo con il suo giudizio, la musica del XVII secolo e la ricerca dell'epoca sulla musica vocale erano riuscite a esprimere nella maniera più realistica e sincera le passioni umane.
Su circa tre ore di musica, quali sono le principali chiavi di volta sulle quali lei costruisce drammaturgicamente «Il ritorno di Ulisse in patria»?
Beh, sotto il profilo drammaturgico la regia svolge un ruolo di importanza fondamentale. Infatti si deve riconoscere che quest'opera si regge con questo tipo di regia grazie alla musica e la musica resta in piedi grazie a una buona struttura drammaturgica, che trova perfetta espressione nella recitazione. I momenti musicali chiave per me sono il lamento di Penelope che apre l'opera, il lamento di Ulisse, quando viene abbandonato sulla riva di Itaca dai Feaci, e il lamento di Iro, dopo la morte dei Proci. Questo perché brani come lo sbarco dei Feaci sono sicuramente molto spettacolari, ma non sfuggono a una certa esteriorità. In quest'ottica lo sbarco dei Feaci è spettacolare, la gara degli archi con la conseguente uccisione dei Proci è spettacolare, ma i momenti più intensi coincidono con il lamento, che è il simbolo per eccellenza dell'espressione degli affetti.
Quindi possiamo parlare di una letturai, intimistica, che va a scavare all'interno degli affetti umani...
In questo senso certamente sì. Ma gli aspetti più significativi del Ritorno di Ulisse in patria trovano piena espressione soprattutto nei suoi contrasti. Come in quasi tutte le opere barocche del XVII secolo, gli elementi principali del Ritorno sono il contrasto, la sorpresa, la meraviglia, lo stupore, il dolore, il momento struggente, il momento , intimo e infine la scena finale, che a me piace moltissimo, perché finisce con il bacio tra Penelope e Ulisse, senza inutili spettacolarizzazioni. In un primo tempo avevo preso in considerazione l'idea di terminare con una sinfonia di chiusura, ma alla fine ho deciso di adottare una chiusura più dolce e intima. Vista in quest'ottica, la fine dell'opera dà anche la chiave di tutta la lettura.
Venendo nel dettaglio dell'esecuzione musicale, quali sono le scelte principali che ha compiuto, per esempio sul basso continuo, un elemento di fondamentale importanza in un'opera di questo tipo?
Il basso continuo è ovviamente molto ricco, una scelta che consente di ottenere la massima gamma di colori. Come vedrà, si tratta di una sezione preponderante rispetto a tutte le altre contando ben dieci strumenti anzi undici, visto che uno strumentista suona sia la viola da gamba sia il lirone.
Quale funzione svolge il basso continuo in un'opera come questa?
In primo luogo, i variegati colori del basso continuo garantiscono una estrema caratterizzazione dei personaggi. Dal punto di vista dell'integrazione strumentale, in un'opera come questa che per l'ottanta per cento è scritta solo per voce basso continuo ‑ fatta eccezione per alcuni rari interventi di Monteverdi ‑ mi sono permesso di aggiungere colori anche utilizzando strumenti che non fanno parte del basso continuo, come i violini, le viole, i cornetti e a volte anche i tromboni. Tenga però presente che i tromboni vengono sempre utilizzati con una concezione molto vicina a quella del basso continuo, cioè con una funzione di integrazione dell'armonia e in linea con la voce, mai con intenti virtuosistici; in altre parole, il violino non suona mai per fare sentire la sua voce ma per accompagnare i cantanti che ‑ lo ribadisco ‑ sono i protagonisti dell'azione. Agli strumentisti ho ricordato in continuazione che tutti noi siamo al servizio della parola e delle voci, perché questa è la realtà che emerge dalla partitura di Monteverdi.
Parlando di cantanti, non posso non notare la grande preponderan!za di voci italiane, contando tra di esse anche quella di Makoto Sakurada, un tenore giapponese che parla un bolognese perfetto...
Già proprio perfettol Vede, quando io parlo di voci italiane, non mi riferisco necessariamente a un cantante italiano di nascita, ma italiano di concezione e di pronuncia. Makoto vive in Italia da tanto tempo e canta perfettamente nella nostra lingua, per cui per me vale a tutti gli effetti un cantante nato in Italia. A mio parere, eseguendo un'opera come questa ‑e, del resto, anche una qualsiasi opera di Händel non è assolutamente concepibile una pronuncia incerta o imperfetta, qui in Italia non sarebbe assolutamente tollerabile. Negli ultimi tempi anche all'estero si è cominciato a tenere conto di questa variabile, al punto che oggi in Germania, in Francia e in Inghilterra per questo genere di repertorio si tende a chiamare sempre più spesso cantanti italiani. In Italia, e soprattutto a Cremona, patria di Monteverdi e città di straordinarie tradizioni musicali non sarebbe nemmeno concepibile utilizzare cantanti incapaci di valorizzare il testo in ogni più piccola sfumatura.
Parlando di cantanti, basta scorrere il programma per rendersi conto che stiamo parlando di un cast composto di sole stelle, dal momento che in questa produzione si esibiscono alcune delle voci più belle del panorama barocco internazionale. Cosa mi può dire dei ruoli principali? Come sono stati scelti?
Beh, ovviamente ciascun cantante è stato scelto in base alle sue caratteristiche vocali. Come può immaginare, non è stato facile stilare il cast definitivo, perché negli ultimi anni in Italia si sono messi in luce moltissimi interpreti di primissinio piano. In un certo senso possiamo dire che la nostra scelta ha dovuto tenere conto di almeno due variabili, in quanto da un lato si doveva cercare di individuare il migliore cantante possibile per ognuno dei ruoli principali e dall'altro abbiamo cercato di mantenere una certa continuità nelle voci nell'arco della trilogia monteverdiana, in quanto il mio intento era quello di creare un gruppo il più possibile affiatato, perché quello che ho chiesto di fare nella prima opera ‑ l'Orfeo ‑ l'ho chiesto in questo allestimento del Ritorno di Ulisse in patria e lo vorrò anche il prossimo anno nell'Incoronazione di Poppea. Per ora l'obiettivo è stato raggiunto, in quanto molti cantanti presenti nel Ritorno di Ulisse in patria sono gli stessi che si erano esibiti un anno fa nell'Orfeo. Ovviamente, nel caso di questa produzione, sono stati apportati alcuni cambiamenti nei ruoli peculiari. Per esempio, nei casi di Penelope e di Ulisse, rispettivamente ricoperti da Sonia Prina e da Furio Zanasi, non abbiamo avuto alcun dubbio, tuttavia abbiamo dovuto operare alcune aggiunte, come nel caso di Minerva, dove serviva una voce estremamente agile e virtuosistica come quella di Roberta Invernizzi, una cantante che in Italia ha ben poche rivali.
Questo allestimento del «Ritorno di Ulisse in patria» si colloca nel bel mezzo di un progetto triennale, un progetto ambizioso e forte, che tocca tanti centri italiani come Cremona, che vanta già una tradizione barocca consolidata, e altri, che invece con questo progetto stanno dando un segno importante, dimostrando l'ottima salute e la crescente vitalità del repertorio barocco in Italia. Mi può dire qualcosa su questo grande progetto?
Il nostro progetto è nato in maniera molto semplice, partendo dall'idea che il Teatro Ponchielli di Cremona ospitasse l'Orfeo, una produzione che all'inizio non implicava necessariamente l'intero ciclo operistico monteverdiano. L'ipotesi di varare questo progetto triennale ha cominciato a farsi strada sulla base della constatazione che un'opera come l'Orfeo non veniva rappresentata da molto tempo; tuttavia eravamo ben coscienti che un'iniziativa che prevedeva un cast di questo tipo, un ensemble di strumenti originali e soprattutto ‑ un circuito che comprendesse diversi teatri costituiva chiaramente una scommessa da non sottovalutare. Giunti a metà del percorso, possiamo ora affermare che questa scommessa è stata vinta: per convincersene basta osservare l'entusiasmo del pubblico a ogni replica. In ogni caso la scommessa che mi è piaciuto di più vincere è stata quella di riproporre questa musica al pubblico del XXI secolo. Certo, in passato si sono sentite anche altre esecuzioni, encomiabili sotto l'aspetto delle intenzioni ma non sempre del tutto azzeccate sotto il profilo della comunicazione tra interpreti e ascoltatori. Per quanto mi è parso di percepire, il pubblico che ha sempre affollato i teatri in occasione delle nostre esibizioni ha recepito perfettamente il nostro modo di concepire Monteverdi. Non è certo un caso se il primo anno il nostro progetto ha visto interessati quattro teatri per un totale di otto recite e quest'anno i teatri coinvolti sono diventati otto e le recite sedici. Di fronte a questi dati, il progetto ha preso automaticamente la strada della trilogia con la stessa orchestra. Sì, perché all'inizio non era previsto che il progetto venisse portato avanti dalla stessa orchestra.
Ritengo che questo sia un segno importante, in grado di dare forza e di accreditare il movimento filologico italiano a livello mondiale. Per quanto mi risulta, le opere di Monteverdi sono state finora affrontate soprattutto da orchestre e solisti stranieri - penso per esempio a John Eliot Gardiner, che le ha incise per Archiv - e che può indicare una maggiore affermazione dell'opera barocca in una nazione che, per quanto riguarda l'opera, è sempre stata legata soprattutto al melodramma ottocentesco.
Sicuramente sì. I segnali che stiamo ricevendo sono nettamente positivi. Soprattutto per quanto riguarda i teatri di tradizione, perché ho avuto il piacere di vedere che sempre più opere barocche o del Settecento vengono programmate in teatri come l'Opera di Roma e nei maggiori enti lirici. Proprio per il loro nome, «di tradizione», questi teatri tendono a rifarsi soprattutto al melodramma ottocentesco. In realtà la nostra «tradizione» più vera è molto più antica. I segnali che riceviamo ci dicono che sia nel presente sia ‑ soprattutto ‑ nel prossimo futuro in Italia ci sarà uno spazio sempre maggiore per quella che non è tanto una riscoperta ma un vero e proprio ritorno alle origini linguistiche dell'opera. E' sicuramente giusto ascoltare l'opera dell'Ottocento ‑per capirci, quella di Verdi e di Puccini ‑ ma è anche importante rendersi conto di come si è arrivati a questo concetto di opera e capire che non è proponibile fare paragoni, ma che si tratta di un vero e proprio viaggio, un percorso nel corso dei secoli che ha modificato un linguaggio, seguendo i gusti del pubblico e cambiando anche le concezioni filosofiche proprie della musica. E' proprio questa la scoperta più affascinante: se si dà l'opera dell'Ottocento senza conoscere quella del Seicento manca chiaramente una base indispensabile.
Dall'incontro con la soprintendente Angela Cauzzi è emersa una grande simpatia nei vostri confronti e uno smisurato entusiasmo per questo progetto. L'Accademia Bizantina come si trova a fare Monteverdi qui a Cremona?
Beh, penso che sia il massimo, perché siamo nella città che ha visto nascere Monteverdi. Inoltre ci esibiamo in un teatro dove abbiamo trovato una collaborazione, una disponibilità, un entusiasmo e una tranquillità che difficilmente si trovano nei teatri d'opera. Ho già diretto parecchie opere, ma l'atmosfera che si respira al Teatro Ponchielli è veramente quanto di meglio si possa avere per lavorare con calma. Con la soprintendente Angela Cauzzi abbiamo stretto un'amicizia che va molto al di là della semplice collaborazione professionale, c'è affinità di intenti, una comunione totale e una sconfinata fiducia reciproca, quindi meglio di così...
Oltre a questo progetto, che tra il 2004 e il 2005 vi terrà impegnati con undici repliche fino a febbraio, cui farà seguito l'allestimento dell'"Incoronazione di Poppea", cosa vi riserva il futuro?
Il futuro ‑ che sotto molti punti di vista è anche il presente ‑ ci riserva grandi cose. Per l'Accadernia Bizantina questo momento riveste un'importanza fondamentale, stiamo cavalcando un'onda felice, stiamo lavorando molto, abbiamo stretto una prestigiosa collaborazione discografica con la Decca con solisti importanti con Andreas Scholl e anche con la Naive, per l'incisione di un'altra opera....
Che si può dire?
Sì, è il Tito Manlio di Antonio Vivaldi, la eseguiamo e la incidiamo in luglio....

Si tratta del progetto integrale?
Sì, è quello che fa capo al Fondo Foà‑Giordano conservato presso la Biblioteca Universitaria Nazionale di Torino. Inoltre il prossimo anno portiamo in tournée il programma del secondo disco che abbiamo fatto per la Decca.
Le cantate dArcadia?
No, quella è stata la prima registrazione che abbiamo realizzato per la Decca; il secondo disco si basa su un programma comprendente alcune delle arie più rappresentative del castrato Senesino sempre con Andreas Scholl. Per questa tournée sono già previste moltissime piazze, tra cui alcuni dei teatri più prestigiosi d'Europa; parallelamente abbiamo in programma tanti concerti strumentali e altri progetti discografici. Al numero di novembre di Amadeus è stato allegato un CD con lo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi e il Salve Regina di Nicola Porpora. E poi... tanti progetti e lavoro, anche lavori operistici ancora in fase di definizione. Bello, è davvero molto stimolante avere tante cose da fare!
intervista di Giovanni Tasso ("Orfeo", numero 88, febbraio 2005)

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