Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, settembre 11, 2006

Gaetano Pugnani: Sonate e Trii

L'ultimo tassello utile a ricostruire la figura, per certi versi ancora enigmatica di Gaetano Pugnani proviene da New York: si tratta di una lettera datata 16 ottobre 1793 nella quale il musicista, alla soglia dei sessantadue anni, ragguaglia Giovanni Battista Viotti sulla difficile situazione politica degli stati Sabaudi, sugli incontri recenti (con «un certo Salomon», di passaggio a Torino) e sulle nuove composizioni (sinfonie, concerti e soprattutto il melologo Werther da Goethe, ridotto anche per clavicembalo). Il tono è quello, confidenziale, del vecchio maestro desideroso di rivedere un ex-allievo per scambiare due chiacchiere e gustare insieme qualche ghiottoneria piemontese; e tuttavia il maestro, pur anziano e sempre più isolato, si rivela nient'affatto pago dei successi conseguiti e non esita, ansioso di rimpinguare le proprie finanze e consapevole forse di avere raggiunto con il Werther l'apice della propria arte creativa (oltre che fiducioso nella gratitudine di chi gli è debitore dei primi trionfi internazionali), a chiedere al pupillo ormai famoso di essere intrdotto in quell'ambiente musicale londinese che, stando a un altro ex allievo (il poco riconoscente Luigi Borghi), pare avere orecchi solo per Haydn.
Non sappiamo se Viotti abbia mai risposto. Alcune allusioni presenti nella lettera suggeriscono che il violinista di Fontanetto Po non fosse proprio solerte nel carteggiare con il maestro, che dimenticò tra l'altro di citare nel Précis autobiografico stilato il 23 marzo 1798 (gli dedicò nondimeno, accordandogli l'aggettivo «célèbre», i Trii per due violini e basso op.2 pubblicati a Parigi da Sieber tra il 1783 e il 1786). Certo è che, dopo l'esordio torinese (diretto - si legge nei Souvenirs di Felice Blangini - da un Pugnani sconvolto e in maniche di camicia al cospetto di nobili e ambasciatori sconcertati), il Werther fu eseguito al Burgtheater di Vienna il 22 marzo 1796 e che l'unica composizione del musicista pubblicata a Londra negli ultimi anni del secolo trovò posto in un'antologia: non solo, quindi, le richieste a Viotti dovettero cadere nel vuoto, ma anche le cortesie profuse da Pugnani nei confronti di Johann Peter Salomon (Bonn, 1745 - Londra, 1815), l'impresario cui era legata la fortuna di Haydn in terra d'Albione (e di cui si ignorava il soggiorno torinese), mancarono l'effetto sperato.
La lettera a Viotti ci consegna l'immagine di un artista fiero della posizione di prestigio ottenuta in patria e al tempo stesso conscio della distanza che lo separava dai centri musicali più vitali nonché degli svantaggi dell'aver preferito la sicurezza di un incarico istituzionale ai rischi della libera professione. D'altronde Pugnani, nato a Torino nel 1731, aveva calcato fin dall'inizio le orme di tanti musicisti di corte: debutto a dieci anni come ultimo violino nell'orchestra del Teatro Regio, ammissione a sedici come violinista della Regia Cappella, soggiorno di studio a Roma concesso dal sovrano ai talenti più promettenti. Come il suo maestro Giovanni Battista Somis e come molti virtuosi suoi contemporanei, nel 1754 aveva trovato la ribalta ideale per l'esordio internazionale nel Concert Spirituel di Parigi, dove le sue esibizioni avevano suscitato commenti entusiastici («Monsieur Pugnani, ordinaire du Roi de Sardaigne, joua un concerto de sa composition. Les connaisseurs qui étaient au concert prétendent qu'ils n'ont point entendu de violon supérieur à ce virtuose», scriveva a marzo il «Mercure de France»). Gli anni successivi lo avevano visto alternare a lunghi periodi di permanenza a Torino sporadici viaggi a Vienna e Londra, città nella quale aveva finito con il trasferirsi nel 1767; violinista nei concerti organizzati da Carl Friedrich Abel e Johann Christian Bach (conosciuto probabilmente a Torino in occasione dell'Artaserse bachiano rappresentato in prima assoluta al Regio il 27 dicembre 1760), violino di spalla al K ing's Theatre, nell'aprile del 1769 Pugnani vi aveva anche debuttato come compositore dell'opera comica Nanetta e Lubino il primo di una mezza dozzina di lavori destinati per lo più alle scene torinesi.
I consensi internazionali, tuttavia, non erano riusciti a fargli recidere il cordone ombelicale con la Corte Sabauda. Tornato in patria, Pugnani aveva così ottenuto nel maggio del 1770 la nomina a primo violino nelle orchestre della Regia Cappella e del Teatro Regio; un paio di mesi più tardi Charles Burney, di passaggio a Torino, aveva assistito a un suo concerto e commentato: «E' inutile insistere sull'esecuzione del signor Pugnani: il suo talento è troppo noto in Inghilterra perché io debba ricordarlo. Osserverò soltanto che egli non aveva l'aria di impegnarsi troppo, ma ciò non desta meraviglia in quanto né Sua Maestà né alcuno della sua numerosa famiglia prestavano molta attenzione alla musica». Indiscusso protagonista della vita musicale sabauda (nel 1776 era stato nominato primo virtuoso di Camera e direttore generale della musica strumentale, nel 1786 direttore generale della musica militare), dal 1770 al 1780 non si era allontanato dal capoluogo subalpino che per brevi viaggi compiuti, presumibilmente per interessi editoriali, a Parigi e Londra negli anni 1772-73. Il desiderio di cogliere nuovi successi internazionali, unito al compito di dare lustro alla Corte torinese e alla voglia di presentare al mondo il pupillo Giovanni Battista Viotti, lo avevano poi spinto a partire, all'inizio del 1780, per Ginevra, Berna, Dresda, Berlino, Varsavia, San Pietroburgo; la separazione dei due musicisti sulla strada del ritorno aveva costituito di fatto un passaggio di testimone: Viotti, degno erede della stirpe violinistica piemontese, aveva proseguito alla conquista del pubblico parigino; Pugnani era invece rientrato a Torino per riprendere la vita di sempre (unici diversivi i soggiorni a Napoli negli anni 1782-84).
Benché sull'onda del successo conseguito da Nanetta e Lubino Peter Welcker avesse pubblicato a Londra l'Overture e i Favorite Songs dell'opera, l'attenzione del mercato editoriale si era appuntata fin dagli inizi sulla sua produzione cameristica. Nel periodo d'oro 1760-75 (ma le date di pubblicazione sono per lo più incerte perché, come scriveva l'«Almanach Musical» nel 1781, «les compositeurs et les marchands de musique ne placent point au bas de leurs oeuvres l'année où ils les publient [ ... ]. Les marchands de musique prétendent que la musique vieillit plus promptement que les ceuvres des autres arts; que la physionomie change à tout instant. Le public ne s'attachant à ce qu'ils prétendent, qu'aux nouvelles productions»), i principali editori di Parigi, Londra e Amsterdarn avevano fatto a gara per accaparrarsi le sue raccolte di quintetti, quartetti, trii, duetti e sonate, peraltro assegnando loro numeri d'opera spesso fittizi e discordanti. Si trattava del resto di una produzione tanto gradita al pubblico, sempre più avvezzo alle esecuzioni private, quanto congeniale al compositore, che ne fece il terreno per sperimentare la convivenza tra generi e stilemi tardo-barocchi e soluzioni espressive e formali in via di definizione, imboccando nuove strade (la forma bitematica tripartita, una maggiore immediatezza comunicativa) senza voltare le spalle al passato (il basso continuo, lo stile concertante, la scrittura fugata, la tecnica della variazione).
Ne sono prova già i Trii per due violini e basso op.1, pubblicati a Parigi da La Chevardière nel 1761 con una dedica al Duca di Savoia che riecheggia nel lessico e nella maniera le tante indirizzate nei decenni precedenti dai musicisti («umilissimi, devotissimi ed ossequiosissimi servitori») ai loro protettori. Primi frutti di quello che Pugnani definisce «debile ingegno», questi Trii si aprono come l'antica sonata da chiesa - con un tempo lento e sono articolati in tre movimenti (fanno eccezione il quinto della serie, che ne ha due, e il sesto e ultimo, che nella prima e in alcune delle edizioni successive fa precedere la Caccia finale da un Minuetto in terza posizione). Se è difficile non rilevare la convenzionalità della struttura e di taluni tratti stilistici, è doveroso però sottolineare come il tutto risulti già vivificato da una ricerca dell'espressione e da una serietà di intenti che, impedendo al compositore di considerare la produzione cameristica poco più di un amabile gioco di società, gli permisero fin dagli inizi di non indulgere all'eleganza un po' fatua di molti rappresentanti del cosiddetto stile galante.
Che i destinatari della raccolta fossero comunque i dilettanti, animatori di quegli intrattenimenti musicali che Charles Avison descriveva come una «conversazione tra amici, in cui alcune persone con le medesime opinioni si scambiano i loro reciproci sentimenti solo per amore di varietà e per ravvivare la loro scelta compagnia», è reso evidente dall'assenza di un eccessivo virtuosismo (non a caso, strizzando l'occhio al mercato, Welcker modificò l'originaria intitolazione in Easy Sonatas. E ai dilettanti, se non direttamente agli allievi, erano forse destinate le Sonate per due violini senza basso pubblicate intorno al 1770 a Londra da A.Hummell e ad Amsterdam da Johann Julius Hummel come op.4, a Parigi da Anton Huberty come op.5. Al pari di quanto accadeva nei Trii op.1, è ancora il primo violino a condurre il gioco, proponendo ed elaborando il materiale tematico laddove il secondo - pur costantemente impegnato a commentare quanto esposto dal collega, a rispondergli a canone o a sostenerlo armonicamente - manca di vera autonomia.
Com'era lecito attendersi, trattandosi di un genere tra i più amati e praticati dai solisti dell'epoca, e com'è peraltro rimarcato dall'alta percentuale di movimenti finali in forma di variazione, le Sonate per violino e basso continuo pubblicate negli stessi anni da Hummel come op.5, da Huberty come op.6 e da Welcker come op.7 presentano un virtuosismo più spiccato: anche qui come altrove, tuttavia, esso rifugge dalla «vana ostentazione del difficile» (G.B. Rangoni), contribuendo piuttosto - insieme alle melodie tenere e graziosamente ornamentate, alla varietà ritmica e a scelte armoniche spesso governate dalla ricerca dell'espressione - alla gradevolezza non vacua di una raccolta che fu tra le più fortunate del compositore.
di Annarita Colturato ("Orfeo", numero 92, luglio-agosto 2005)

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