Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, agosto 17, 2006

Trio Beaux Arts: noi tre, felici di farvi felici

Arrivano cortesi tutt'e tre, e io non so resistere alla tentazione e dico a Peter Wiley, il violoncellista giovane dalla figura sportiva: "lo la odio". Ornella Farioli, che accudisce gli artisti per la Philips, ritraduce in buon inglese: "Il maestro Arruga osserva che dev'essere difficile per un giovane artista sostituire un musicista del prestigio di Bernard Greenhouse, legato al Trio da trent'anni e l'anno scorso ritiratosi". Ma l'interrompo: "No, ho detto proprio che ti odio, violoncellista per bravo che tu sia: perché dopo un viaggio lungo il passo del San Bernardino, con il Trio in Mi bemolle di Schubert, il suono di Greenhouse è entrato nella mia memoria, il suo respiro, il colore della voce del suo Stradivari..." A me lo dice?, replica ridendo Peter Wiley, a me che son suo allievo? Per un anno ho lavorato al posto suo, cento concerti, cento debutti. Per fortuna, la musica da sola viene in soccorso a noi che la serviamo. L'avventura del Trio Beaux Arts continua: i due colleghi mi hanno accolto con generosità meravigliosa, al punto che ho capito che ho da offrire anch'io qualche cosa di nuovo. Io mi giovo della loro esperienza. E a modo loro anche loro si giovano della mia inesperienza.
I due colleghi e tutelari sorridono autorevolmente approvando. E' un sodalizio saldo, un gruppo di persone che fa concordemente cose in cui crede, credendo gli uni negli altri. "D'altraparte, odio un po' tutti voi", continuo; e sento un sopito singhiozzo dalla parte di Ornella. "Voi m'avete dato una visione stravolta della storia della musica. Ho ascoltato i Trii di Schubert e ho capito che le cose più importanti scritte da Schubert sono i trii. Ho ascoltato i Trii di Haydn e ora penso che nulla della musica di Haydn sia bello come i trii. Adesso che vi apprestate a darci un'edizione completa dei Trii di Mozart, studierò attentamente Don Giovanni, Il flauto magico, i Concerti per pianoforte e orchestra, per non cascarci più".
Ridono. Ma saggiamente Menahem Pressler mi previene:
- Grazie. No: in Mozart i trii sono tutti inimitabili, densi di bellissima musica, trasparente, unica. Ma in lui è troppo grande l'opera. Il Don Giovanni... (dice e lascia una pausa, come per aspettare l'onda che il suono di quella parola genera nella nostra coscienza). Il flauto magico... (pausa, il silenzio di tutti è perfettamente sintonizzato)... I concerti per pianoforte... ah, il K 271, ah, il K 488...

Se non fossimo seduti così ben compìtamente su seggioloni attorno a un ampio tavolo nella saletta dell'Hotel Manin, e così amabilmente concentrati, somiglieremmo alla famosa barzelletta dei pazzi che si raccontano le barzellette che ciascuno già conosce e riconosce dal numero (e tutti ridono, finché un altro pazzo dice a sua volta i numeri e nessuno ride più. Perché? chiede stupito un sano. "Cosa vuole", gli spiegano, "c'è modo e modo di raccontarle"). Qui, siamo carichi di effetti musicali e di civiltà che si fonda sulla memoria, come se Mozart l'avessimo ascoltato sempre tutti insieme. Ma Isidore Cohen, il violinista, interviene un istante prima che la pausa dovuta a 488 si sia consumata:
- E i quartetti? I quintetti! Dico soltanto: sol minore...
- Lui ha molta esperienza di quartetti e quintetti, spiega il pianista, che a sua volta, richiesto, confessa d'aver eseguito molte volte ed anche inciso da solista i concerti mozartiani più importanti.
"Aq uesto punto devo confessare d'essermi espresso un po' male" intervengo allora io: "vi ho fatto torto. Non è tanto che fossi spinto a compilare classifiche tra le varie composizioni d'un autore. Ma ogni volta con voi avevo l'impressione di trovarmi davanti all'arte dell'autore, come fossi alla sua presenza, e come se nulla fosse così naturale come sentire che si esprimeva così. E con una pienezza e una freschezza come non m'accadeva mai".
- Siamo adulati che la pensi così, replica calmo e pensoso il Violino. Noi abbiamo appreso molte cose sullo stile. Ma crediamo che ci sia molta importanza nell'intuizione. Noi desideriamo esprimere il più intimamente possibile ciò che il compositore ha inteso dirci.
- Noi suoniamo quello che sentiamo e capiamo, s'inserisce il Pianoforte. Vorrei dire: indipendentemente dal pubblico. Non cediamo di nulla sulle attese del pubblico. Noi crediamo che il pubblico possa capire tanto più quanto noi siamo convinti di capire.
- Noi, continua il Violino, siamo tre: tre voci, tre persone. Ognuno cerca, ognuno pensa, sviluppiamo insieme. Ci ascoltiamo suonare. A volte ci sembra di incorrere, o che qualcuno incorra, in un'incertezza, una strada sbagliata d'uno che va via per la sua scelta. Sono tutti momenti preziosi. Ci fermiamo, ripetiamo, cambiamo se non c'è concordia. Adesso abbiamo un nuovo musicista con idee differenti, e continuiamo ad ascoltarci, a cercare.
- E vero, conferma il Violoncello. E non esiste gerarchia, non esiste età. Stiamo tesi nell'idea che cerchiamo, che troviamo.
"Pensate molto a tavolino, prima di suonare?".
- Mai!, assicura il Pianoforte. Cominciamo subito a suonare. Con Peter, come prima con Bernard. Certo, a tavolino ognuno ha pensato e studiato per conto suo. E poi esiste una vita in comune, dove le idee sono abituate a confrontarsi, si prende un certo modo d'intendersi, una libertà comune. Ma è suonando che ci confrontiamo a fondo. E suonando che cerchiamo.
Il Violino chiarisce:
- E per esempio io sono nel Trio da diciassette anni, e in tutto questo tempo nessuno di noi ha mai pensato d'essere "arrivato" a un'interpretazione.
E' già passato un po' di tempo, e solo adesso m'accorgo di non aver avuto la curiosa sensazione abituale all'ascolto delle voci dei musicisti, che così spesso sono diversissime da quanto ci si era immaginati vedendoli ed ascoltandoli suonare. Qui ciascuno ha invece la sua voce giusta, ed il suo tono. Sportiva, nitida, con ritmi brevi ed intervalli irregolari, quella di Peter Wiley, che non è proprio un ragazzo se nel 1976 era già prediletto da Schippers, che lo fece suonare Schumann con la Cincinnati Symphony, ma ne impersona il tipo. Voce da attore cinematografico, posata, fonda, convincente, spiccata, quella di Isidore Cohen, mentre Menahem Pressler svaria su un pentagramma un po' più acuto, col fraseggio di chi spiega, e l'andamento a ritmi continuamente proporzionati al concetto.
- Ecco, conclude il Violino, quando le nostre sei orecchie si accorgono che c'è qualcosa da chiarire, si comincia a parlare. E ognuno sa che non esiste un'interpretazione definitiva, eppure ognuno vorrebbe convincere gli altri due che il modo giusto è il suo.

Io giurerei che cercano di farlo fino all'ultimo, ancora nel momento in cui suonano. Ad esempio, Menahem Pressler suona il pianoforte mezzo voltato verso gli altri, come si fa nella musica leggera, ed in certi momenti oltre al colore, all'estro delle frasi musicali, la sua mimica, con le braccia che sembrano gesticolare una conversazione, pur con le mani bene appoggiate alla tastiera, e quella faccia un po' suadente e ironica sembra proprio inviti a portarsi sulla sua linea. Anche chi ascolta, avesse uno strumento e lo sapesse suonare, in quel momento, gli risponderebbe. E qui sta il gioco. Il momento della musica in concerto, spiegano i Tre, è il momento dei cento accordi maturati lentamente, e il momento dell'improvvisazione in un comune sentimento.
E il pubblico? Davvero non condiziona, non lo stile, ma almeno un certo modo di essere, di porsi?
- Oh, il pubblico sì, certo, ma come presenza, come condizione storica, come caratteri specifici nazionali e di costume. La strana sensazione che si prova, dice il Violino, che in Italia, in Germania la musica suoni differente: c'è un differente soundfra i due Paesi, lo si avverte come arriva alle orecchie. Sì: i Tedeschi BachlMozart, gli Italiani Scarlatti/Puccini, ragiona il Pianoforte sull'eredità storica ed etnica, accresciuti, arricchiti, qualche volta prigionieri... Più liberi, o forse solo più disponibili, gli americani. E poi, sorprese: in Giappone la musica occidentale accettata, capita, eseguita magnificamente. E l'Europa, negli ultimi anni, sempre più unita, bellissimo vedere il suo cammino.
Annoto in sintesi, per cenni, le loro riflessioni. I tre conversano con una competenza e una circospezione d'eloquio che farebbe invidia ai letterati.
- Da giovani, si crede (comincia quieto da lontano il Pianoforte, e pare una parabola), si crede che ciò che si vuole sia la perfezione. Ma per il pubblico ascoltare la perfezione nella musica è come guardare una partita di tennis. La perfezione può essere una cosa superficiale. L'anima va cercata, per dare l'emozione dell'arte. L'anima è come la cipolla. Uno, due, tre veli, via, bisogna togliere diversi strati, finché si comincia a sentire le emozioni più profonde. La perfezione va cercata, perché è il nostro modo di disegnare giusta la faccia dell'autore, la faccia della musica. Ma bisogna anche avere la pazienza di accettare qualche errore, qualche cattiva riuscita. Uno ha un bellissimo viso, e magari gli spuntano dei brufolini. E si guarda allo specchio, e non è più così bello, ma non cambia la faccia, che rimane la sua.
Ora è il Violino che espone il suo pensiero, e pare uno di quei docenti che talvolta ci arrivano sui teleschermi come autorità di Berkeley o di Yale, autorevoli, pacati, fascinosi e pragmatici, e vorremmo tanto incontrarli anche nelle università di casa nostra.
- Una volta, il pubblico dei concerti da camera era una sorta di élite. Si cercava l'essenza della musica. Non virtuosismi, non meraviglie tecniche. Ci si sentiva anche privilegiati, nella cerchia di coloro che capivano la musica da camera. Ma gli esecutori erano musicisti vincolati a quel tipo di musica. Nessuno di loro avrebbe potuto fare il solista. Adesso noi pensiamo (sì, sì, si agita il Pianoforte: solo, solo così; certo, certo, approva il Violoncello: of course) che solo gli strumentisti liberi e capaci di suonare come solisti possano fare buona musica da camera, messi insieme. Ma il virtuosismo va superato, non fatto sentire, bisogna stare concentrati sul senso della composizione, sul contenuto emozionale.
Il finale del Trio numero 1 di Beethoven fa prendere un desiderio di velocità, ma non è un... non è un... che salti sui rami, tuc, tuc, tuc...
Cercava una parola in italiano, che aveva in mente. I compagni lo aiutano. Peter accenna a unire i pollici, agitando le altre dita aperte, Menahem alza le braccia piegate all'altezza delle spalle, agita gli avambracci e, con scioltezza di polso, anche le mani. Alla fine vien fuori la parola: "colibrì". Il Violino conclude. - Ci sono frasi in Schubert che richiedono grandi mezzi tecnici. Noi lo sappiamo. Oguno di noi minimizza la difficoltà superata, e aspetta che anche l'altro faccia così; la sfida del virtuosismo può venire anche più forte in questo modo, ma non è questo a cui cerchiamo di pensare. Noi cerchiamo che il discorso di Schubert si compia.
Più spiccio il Violoncello.
- Il pubblico che sta oggi maturando, un pubblico assai vasto, interessante, molto ricco di giovani generazioni, si aspetta proprio questo, io penso, che tutti vorremmo riuscire a fare: identificarsi con la fisionomia musicale. E' come se ognuno
si unisse in una buona conversazione. E' il piacere di conversare fra noi e col
pubblico. Di questa conversazione musicale fa parte, proprio come linguaggio, anche il virtuosismo, quello che si vede e quello che non si vede. Ma come un carattere somatico della faccia del compositore.
Guardo le facce dei tre musicisti, che parlano immacolati della Musica, come se la vita avesse un volto senza brufolini. E penso a questi giorni di tensione internazionale, Israele e gli Stati Uniti al centro d'un lacerante rapporto, e la repressione in Palestina. Di loro, due sono ebrei americani, e nella loro vita professionale, all'incontro col pubblico, vorrei sapere che cosa si sente nell'offrire musica in un momento così problematico, tragico, inquieto. Lo chiedo apertamente.
- Il problema della musica e della politica nei loro intrecci, spiega calmo il Violino. La cultura della gente che comprende i significati politici e morali della musica. Quando si parla di politica, è un problema. Prendiamo il Trio di Shostakovic, che eseguiamo in questi giorni. (è il Trio del 1944, testimonianza della guerra, del controverso sforzo dell'autore per farsi cantore della storia, in epoca pienamente stalinista). Ha un programma politico preciso, anzi un programma musicale dettato da una ragione storica e politica. In Europa si sente, suonando, che gli ascoltatori ripercorrono in qualche modo quegli anni, quelle ragioni. Negli Stati Uniti, i giovani americani è più naturale che sentano la bellezza musicale soltanto; anche la forza angosciante; ma è più facile che dicano semplicemente "fantastic".
- Questo programma preciso, riassume il Pianoforte, si riferisce ad uno dei momenti tragici della storia, momento che è finito. Usa significati musicali per dare significati al di là della musica. E possono essere riportati semplicemente da chi ascolta pure idee musicali.
- Ma anche molti americani giovani, di origine e formazione europea, oggi, hanno voglia di capire e ripercorrere lu storia al di là delle ragioni musicali, aggiunge il Violoncello.
- C'è stato un tempo in cui non conoscevo il "programma", interpretavo quella musica soltanto per quello che musicalmente dava. Quando lo conobbi, coincideva però esattamente con le sensazioni musicali. E il Violino, che è intervenuto; e mi guarda bene negli occhi, come mi volesse trasfondere sicurezze di pace interiore: ero colpito da quest'ultimo tempo che suonava come una conversazione spirituale, una preghiera.
- Ero sorpreso, gli fa eco il Pianoforte, di quell'ultimo tempo che suonava come una danza chassidica.
"Ma adesso", insisto io, "con quello che sta succedendo in Israele e nel mondo, v'è capitato di sentire il pubblico mutato verso di voi? Vi siete posti il problema di una vostra parte in tutta questa grande vicenda?

- Mi rammento, dice il Violino, d'una volta che suonammo in una piccola città del Messico. Noi sentivamo che in quei giorno c'era una forte tensione antiamericana. Suonammo Brahms, Ravel. Li suonammo concentrandoci su Brahms e su Ravel. Noi volevamo che sentissero che cercavamo di farli felici, ma non avevamo altro mezzo che farli felici attraverso Brahms e Ravel. Perché Brahms e Ravel rendono felici, per quel che possono. All'inizio noi eravamo concentrati, loro ostili, ma poco a poco anche loro erano concentrati, e alla fine siamo stati felici tutti.
- Il mio nome è Menahem, dice il Pianoforte, e il suo cognome Cohen: non ci sono misteri o dubbi. Ed è possibile che ci siano tensioni, in questo mondo sempre teso; può esserci nel pubblico anche dell'antisemitismo nascosto. Ma le nostre vite esistono musicalmente; e ci apprezzano come artisti, così ci ascoltano, cercando di trarre il meglio.
- Io credo proprio, dice il Violoncello, che la musica aiuti la gente ad unirsi.
Bravissimi. Ma così non riesco a togliere l'ultimo velo della cipolla della loro anima, come accade invece quando suonano. "Ma voi che cosa fate quando non suonate?"
Violoncello: Sono capitano, a Marlboro, d'una squadra di baseball.
Violino: Ho comperato quattro anni fa una casa, sto mettendola in piedi, mi occupo molto del giardino.
Pianoforte: Leggo giornali, guardo la televisione nei pochi spazi liberi in tournée. A casa, tengo il tempo libero per parlare con mia moglie. Anzi, per l'85% per ascoltarla parlare.
Perfetti. Il velo di cipolla in cui si sono avvolti è adesso luminoso e trasparente. "Ma insomma", dico a voce un po' più alta del previsto, "non avete mai momenti di stanchezza? Momenti in cui del mestiere di musicista, del lavoro, di più, proprio della musica, di musica non ne potete più?".
Mi guardano, gentili, sorridenti. Un filo d'ironia, ma la voce confidenziale. - Oh, sì, ammette il Violino. Accade prima del concerto, a volte anche sul palcoscenico. Tutta la vita è come fosse assorbita da quel momento temuto e inaspettato di debolezza. I nervi stan cedendo. Ma si inizia a suonare, e la stanchezza stessa è assorbita dalla musica.
- Oh, sì, esclama deciso il Violoncello. Io sì mi stanco per davvero. Nell'ultima tournée, alla fine d'un mese con più di venti concerti, sono tornato a casa e mi son detto: beh, non sono nemmeno tanto stanco. Mi son messo sul letto ed ho dormito per tre giorni.
Il Pianoforte lo guarda, atteggia la bocca a comprensione, e mi confida a mezza voce, quasi per scusarlo:
- C'è una ragione, se si stanca. E' giovane.

intervista di Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XII n.5, maggio 1988)

Nessun commento: