Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, agosto 15, 2006

Il "Così fan tutte" secondo Arruga


Ci fu, presto, un'altra opera firmata da Da Ponte e Mozart, e fu annunciata anche questa come buffa: Così fan tutte. Da raccontare in fretta Così fan tutte è una delle storie più semplici del mondo, anche se un po' curiosa. Una scommessa: due giovani ufficiali, per provare a un cinico amico la fedeltà delle loro fidanzate, si travestono da orientali, con turbanti e mustacchi, e corteggiano l'uno la donna dell'altro, ma le seducono, amaramente. Da raccontare meglio, com'è per davvero, con le parole di Da Ponte e con la musica di Mozart, è invece una delle storie più complesse. Divertente e disperata, logica e contraddittoria. In breve, per usare l'aggettivo che ci viene in soccorso ogni volta che tentiamo di parlare di Mozart, una delle più misteriose.
Fu subito un successo, al Burgtheater di Vienna, il 26 gennaio 1790, diretta dall'autore con i cantanti abituali, e molto presto uno scandalo che per molte generazioni si è diffuso: Beethoven si arrabbiava per il testo, a Wagner non piaceva neanche la musica, Georg Bernard Shaw diceva che era un gioco di società, e i tedeschi ne facevano spettacoli in cui le dame tradivan l'amante ma con l'amante stesso travestito. Possibile che l'angelico Mozart raccogliesse in una rete luminosa di musica un fattaccio di quel genere?
A guardar sottilmente, il problema non stava nella storia un po' ardita. Ovidio, Ariosto, Tirso de Molina avevano già raccontato cose simili, sorridendo magari sulle donne che, giovani o vecchie, belle o brutte, come spiega Da Ponte, ahimè così fan tutte. Era il secolo delle Memorie di Casanova e delle Liaisons dangereuses, figuratevi. Ma il fatto era che Mozart barava, perché tradiva le regole dell'opera buffa: proprio l'opera buffa, dalle vicende scollacciate ma dal finale a buonsenso, con la catarsi rapida, con le certezze care, qui ci gettava nel dubbio. E ancora lungo lo spregiudicato Novecento per esorcizzare il turbamento si celebravano tradizionali allestimenti rococò, bianchi come certe torte austriache, in cui tutto era finto e allegro e senza peso, e si diceva spesso che Mozart aveva prescelto quel soggetto per obbedire a un estro dell'Imperatore che gliel'aveva consigliato.
A guardare anche più sottilmente, il problema però non è di Mozart, ma è nostro. Mozart era convintissimo di dover musicare questo libretto, e di doverlo musicare come ha fatto. Per lui è naturale che, dopo l'addio fra le dame e gli amanti fintamente partiti per la finta guerra, si sciolga d'improvviso il più soave terzetto della storia del mondo, col pensiero delle amate che accompagna la barca mentre si allontana: «Soave sia il vento ... », cui si unisce, come fosse incantato, anche il disincantatissimo inventore della scommessa, terzetto che invece, quando leggiamo lo spartito la prima volta, ci fa girare indietro la pagina, per vedere se proprio può nascere lì, a quel punto, con la sola ragione di nascere. A noi fa un tuffo al cuore accorgerci che due finti personaggi, travestiti con baffoni e turbanti all'orientale, possano dire l'uno alla fidanzata dell'altro le parole che certamente non avevano mai saputo dire alle rispettive fidanzate vestiti con i propri panni, tanto che restan subito turbate. Perché qui non si tratta di debolezza della carne, si tratta di amore, cui tutto consente, e gli equilibri dell'universo sono infranti.
Così ci interroghiamo mentre la vicenda si snoda lì, naturale, col passo dell'inevitabile, davanti a noi. Che cosa ci vuol dire? E cominciamo ad avere una certa paura. Paura di che? Che Mozart abbia un poco sbagliato, o che Mozart abbia visto troppo giusto? Che sia vero l'elogio dell'Illuminismo, sussurrato sottovoce nel veloce sestetto alla fine dell'opera «Fortunato l'uom che prende - ogni cosa per buon verso / e tra i casi e le vicende - da ragion guidar si fa»? O che sia vera l'escalamazione insinuata dal vincitore della scommessa in un terzetto: «O pazzo desire - cercar di scoprire / quel mal che trovato - meschini ci fa»? E che sia vero proprio il titolo dell'opera? Che sia vera quella specie di svolta cadenzante, affettuosa, rassegnata, soave, che proprio sulla parola «tutte», la prima volta sembra farci allargare le braccia, per poi farci ripetere la frase scuotendo la testa e arrivando ormai decisi alla certezza sugli accordi di dominante e tonica: «tutte»?
Da quando si è cominciato a guardar fisso la faccia nascosta di quest'opera, si è aperta una specie di emulazione attenta e onesta: il proverbialmente agnostico e diffidente Massimo Mila s'è trovato d'accordo col cattolico Henry Ghéon nel cogliere proprio in quelle seduzioni affettuose e liberatorie un po' cantilenanti il «regresso irresistibile verso un Eden originario d'innocenza felice» e con un cattolicone battagliero come Giovanni Papini che voleva ringraziare Mozart per averci condotto «ai paradisi perduti ma non dimenticati che soltanto la violenza del genio può restituire, almeno per qualche momento, a noi esuli». Lidia Bramani dimostra, addirittura cifre massoniche alla mano, che l'opera contiene una metafora del sapere alchemico, quello che i musicisti si tramandavano in segreto da Monteverdi probabilmente a Bach, e che detterà a Wagner Tristan und Isolde, quella che avrebbe generato un «doppio» del Così fan tutte nelle Affinità elettive di Wolfgang Goethe, Die Wahlverwandtschatfen: così Mozart acquisisce con veggente modernità «l'accettazione di sé: un sé ambiguo e instabile ma dominabile da una coscienza che non nasconde più il suo lato profondo e oscuro», «l'estetica mozartiana racchiude in sé, come il pensiero alchemico vuole, il senso dell'opus e di quello che la psicologia contemporanea ha scoperto essere il tragitto ancestrale, sofferto e potenzialmente positivo di ogni essere umano».
Noi cerchiamo, studiamo, qualche cosa capiamo. Ma quando poi siamo a teatro ci accorgiamo ancora una volta che è difficile capire la crudele, misteriosa leggerezza che ci si presenta. L'addio finto ai partenti, straziante (il percorso delle viole, che cosa di più commovente vorremmo mai ricevere come pegno d'amore da chi ci sta lasciando e sogna di tornare?). E poi invece il duettino in cui il baritono Guglielmo carpisce il cuore della vinta Dorabella (le pause, le sospensioni, le «corone», gli «a tempo»: anche i doppisensi sono trasvolati in un incantamento che è amore delicato, denso, perdutamente). E l'alleanza fra la grazia acerba della servetta (come? le servette ci deliziavano con il loro buon senso, in teatro, condito di pepe come un manicaretto speziato ma da servire sulla buona tavola di casa!) e il disincanto dell'amico più anziano (come? l'amicizia era affetto, e affetto qui resta; ma era provvida e complice, e qui sposta la complicità in un'assistenza in un percorso pauroso come un'iniziazione). E Come scoglio, l'aría forte del soprano di coloratura: non cede un soprano così, perché tutto il mondo dell'opera sta a darle fede, prima e dopo, Händel e Verdi, i nostri ricordi teatrali... non ci inganna, non ci può abbandonare: e invece ah, l'oboe, quell'oboe s'insinua all'ultimo momento a dire ciò che Ferrando non sa, e ci sentiamo perduti, altro che opera buffa, altro che soddisfazione della saggezza, altro che compimento... o forse anche noi per riprenderci abbiamo bisogno d'un'iniziazione.
E' vero, si può piangere quando, distrutti dal Così fan tutte, ci accorgiamo che Mozart pochi giorni dopo volta pagina e scrive Il flauto magico dove tutto è ritrovato, mitico, aereo, intimo, trionfale...
Ma poi bisogna accettare. E ritornare ad accorgerci che Così fan tutte è in fondo proprio un'opera buffa. E, come le opere buffe, ci vuole dare gioia; e ci dà gioia, per cominciare, nella consapevolezza del potere dell'arte, che la nostra coscienza di capire e dominare ciò che accade può far sentire come meraviglia, come dono assoluto. Vorticosamente. La parola, prima di tutto. Cosa scatena, cosa fa lievitare. Quando Mozart tocca un libretto di Da Ponte, Da Ponte diventa il maggior librettista della storia, se si può parlare di storia quando un testo sembra scritto ieri. L'eros della parola anche quando è finta, perché chi riesce a inventare con smaccata finzione parole così ha una carica erotica pruriginosamente accattivante: è questo che rende tanto importanti le frasi dei due ufficiali travestiti, quando si presentano, e Ferrando s'inerpica su verso il Mi bemolle parlando delle fulgidissime pupille delle due donne, e i violoncelli e i contrabbassi invece si buttano all'ingiù, quasi volessero garantire chissà qual fondamento profondo... Poi, la musica. Il potere della musica. La forza purificatrice che mantiene, per il fatto d'essere musica. «Diabolus ex machina» insinua il più discusso ma geniale dei biografi di Mozart, Wolfgang Hildesheimer.
La radice buona della vita, prima del «malo obietto» come direbbe Dante, la fiamma che rimane fiamma anche se indirizzata male: scandalo non soltanto dell'arte ma anche della vita, su noi. La musica, celebrata perché musica, confortante perché musica. E infine il teatro. La forza d'impostare uno schema di finzione totale per far sorgere il vero. Inutili le obiezioni. «Già, travestiti così ... » (e se fossero stati invece oggettivamente irriconoscibili, cambierebbe la storia? Sarebbe più disgustosa per la virtù delle femmine e dei maschi di cui è meglio non parlare?) «Ma via, tutto in un giorno ... » (e se fosse stato un anno, toglierebbe qualcosa al dubbio morale, alla tragedia sotto la lievità della parabola comica?) Il teatro, rivelatore. Anche qui, la gioia dei suoi ritmi, il piacere dei suoi topoi. 19 lungo discorso sul travestimento, che attraversa tutto il teatro mozartiano. (Come ci si traveste, in teatro, si diventa: o si deve lottare per non diventare.) La pena, amara, dell'unica immagine senza consolazione dell'opera, quel mantello e quel cappello da militare che per un solo istante Fiordiligi indossa per andare al campo di battaglia a raggiunger Guglielmo; e restano inutilizzati, scivolati presto a terra, perché così fan tutte.
 
di Lorenzo Arruga (da "Mozart da vicino", ed. Rizzoli, 2006)

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