Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, giugno 03, 2006

Bach e la trascrizione

Nel trapiantare un brano da un mezzo fonico a un altro, diverso da quello per cui era stato concepito, si manifesta la sete dei sommo Compositore di conoscere e assimilare ogni aspetto della musica.

Perché si effettua una trascrizione? Quali sono le ragioni per cui si trapianta una composizione musicale da un mezzo fonico a un altro, diverso da quello per cui era stata in origine concepita? E hanno qualcosa in comune - poniamo - un antico contrafactum, la trascrizione bachiana di un concerto di Vivaldi, la trascrizione pianistica di partiture sinfoniche e operistiche realizzata da Liszt? Ci sono vari modi di effettuare una trascrizione; ma alle origini di quella che è una prassi costante della nostra tradizione musicale stanno fenomeni storici ricorrenti. Ci possono essere ragioni commerciali: la diffusione di una grande opera teatrale o sinfonica è facilitata da trascrizioni, per pianoforte o per piccoli organici strumentali, che la rendono accessibile al mercato amatoriale. Ci possono essere ragioni didattiche: da sempre la trascrizione è uno dei metodi di studio privilegiati dai compositori, non solo perché essa costringe ad affrontare i problemi di una specifica tecnica vocale o strumentale e dell'adattamento a un diverso organico, ma anche perché è un ottimo mezzo per studiare la forma, il piano delle modulazioni, il lavoro tematico di una composizione. Ci possono essere ragioni pratiche: alle trascrizioni devono forzatamente ricorrere i musicisti che suonano strumenti il cui repertorio è povero di composizioni originali. C'è persino chi si applica alla trascrizione per «migliorare» l'originale: è quanto fecero, in perfetta buona fede, Mozart
con i lavori oratoriali di Händel, Mahler con le sinfonie di Schumann, Rimskij-Korsakov con la musica di Musorgskij.
La trascrizione, in ogni caso, oggi è colpita da un generalizzato discredito, tanto che si è finito per disconoscere l'importanza storica del procedimento, dandone una falsa valutazione. Sono stati il Romanticismo e lo storicismo idealista, nell'800, a provocare il rivolgimento: è da allora che nella nostra cultura musicale si sono radicate le idee che l'autore licenzi le proprie creature in una veste compiuta e immutabile, e che il timbro sia un parametro sostanziale, e insostituibile, della creazione originale. In quest'ottica ogni trascrizione può solo apparire come un «tradimento» della volontà d'autore, da guardare con sospetto, anche quando il lavoro del trascrittore non è puramente meccanico ma si configura come una rielaborazione o una parafrasi dell'originale, e comporta dunque un vero apporto creativo. Una valutazione negativa è tanto più impropria nel caso di Johann Sebastian Bach. Anche un'occhiata superficiale al suo catalogo, nel quale i frutti della trascrizione sono numerosi e costantemente distribuiti nel tempo, svela che questa attività non è né occasionale né collaterale: è, al contrario, uno degli aspetti più caratteristici nei quali si manifesta la sua sete inesauribile di conoscere e assimilare ogni aspetto dell'arte e della scienza musicale.
I Concerti per violino Bwv 1041 e Bwv 1042 fanno parte, come i Brandeburghesi, delle musiche composte intorno al 1720 per virtuosi del Collegium musicum di Köthen, il complesso strumentale della locale corte principesca; più tardi, negli anni di Lipsia, Bach li trascrisse, assieme a molti altri, per cembalo (divennero rispettivamente i Concerti Bwv 1058 e Bwv 1054). Anche i Concerti Bwv 1052 e Bwv 1056 nacquero come concerti per violino e furono poi trascritti per cembalo; di essi non conosciamo però la versione originale, perduta: ci sono rimaste le sole trascrizioni. Il primo dei due (c'è chi sostiene che il Concerto fu scritto, in origine, per viola da gamba o per viola d'amore anziché per violino) fu riutilizzato da Bach nelle Cantate Bwv 146 e Bwv 188: i movimenti estremi del Concerto divennero sinfonie con organo obbligato. Poi Bach lo trasformò in un Concerto per cembalo, approntando la versione oggi conosciuta e generalmente eseguita. Anche il secondo dei due Concerti nacque per il violino (o forse per l'oboe) e fu parzialmente riutilizzato in una cantata, la Bwv 156: il secondo movimento divenne una sinfonia con oboe solista. Come il precedente, fu trascritto per cembalo negli anni di Lipsia. In passato ci sono stati vari tentativi di ricostruire la versione originale, perduta, dei due Concerti Bwv 1052 e Bwv 1056: ci provarono nel 1873 Ferdinand David, che ne preparò una versione per violino e pianoforte, e nel 1917 Robert Reitz. La ricostruzione più recente è quella di Wilfried Fischer, confluita nella Neue Bach-Ausgabe.
Le trascrizioni per cembalo dei quattro concerti violinistici, effettuate da Bach stesso, corrispondono a ragioni essenzialmente pratiche.
Furono realizzate a Lipsia: in quegli anni (1723-1750) Bach rielaborò numerosi concerti per lo svago della borghesia cittadina, per i caffè e i giardini nei quali si esibivano i complessi strumentali attivi in città. Dal 1729 al 1735 a Bach fu affidata la direzione del Collegium musicum, la società musicale fondata da Telemann nel 1701, costituita in gran parte da studenti e docenti dell'università lipsiense. Per il Collegium, Bach scrisse alcune opere originali, ma rielaborò più spesso concerti composti in precedenza a Köthen, affidando la parte solistica a uno o a più clavicembali. Veniva incontro, in questo modo, al gusto della borghesia locale che apprezzava particolarmente il nuovo genere del concerto solistico per clavicembalo; al tempo stesso approfittava del fatto che a Lipsia poteva disporre, tra figli e allievi, di molti bravi cembalisti, mentre i buoni violinisti non erano altrettanto numerosi.
Negli anni di Lipsia, una città che richiedeva una produzione di musica strumentale d'insieme consistente, Bach si applicò dunque sistematicamente all'attività di trascrittore. Ma era, questa, una prassi che aveva coltivato sin dagli esordi della sua carriera artistica. Negli anni trascorsi a Weimar come Konzertmeister di corte (17141717), Bach preparò cinque concerti per organo solo (Bwv 592-596) e sedici per clavicembalo (Bwv 972-987) traendoli da concerti di autori italiani, o perlomeno da concerti composti in stile italiano. Di tutti questi, almeno nove sono di Vivaldi. Una presenza così massiccia di opere del veneziano non meraviglia: all'epoca Vivaldi occupava un posto preminente tra gli italiani studiati dai compositori tedeschi; i suoi manoscritti circolavano in Germania da tempo, assieme alle opere di Corelli, Torelli e Albinoni, e la sua fama si era ulteriormente consolidata dopo che l'editore Estienne Roger di Amsterdam aveva stampato, nel 1711, l'Estro armonico. I suoi concerti strumentali avevano stupito profondamente i contemporanei: la perfezione della forma, l'impulso ritmico e melodico, la pregnanza figurale, l'originalità dell'invenzione, costituivano all'epoca una rivoluzione stilistica non da poco.
Fu una sollecitazione esterna che spinse Bach a trascrivere per strumenti da tasto quel gran numero di concerti italiani: lo fece su richiesta del giovane principe Johann Emst von Sachsen-Weimar (1696-1715), nipote del duca Willielin Ernst al cui servizio Bach si trovava a Weimar. Il principe era rientrato a corte nel luglio 1713, dopo un soggiorno di oltre due anni a Utrecht. Nella primavera del 1713 si era recato ad Amsterdam, dove aveva ascoltato l'organista della Chiesa Nuova, Jan Jacob de Graaf, che era solito eseguire all'organo trascrizioni di sonate e concerti italiani, suonandole a memoria (l'organista era cieco) e con uno stile del tutto personale. Pare che questa prassi fosse seguita anche da altri organisti locali: ne parla Johann Mattheson, che riferisce dell'esecuzione all'organo, in Amsterdam, di musica italiana recente. E' probabile che il principe, particolarmente versato per la musica (aveva portato con sé dall'Olanda una grande quantità di musiche nuove, e componeva lui stesso concerti all'italiana), volesse ricreare a Weimar le esperienze d'ascolto di Utrecht e Amsterdam. Invitò perciò a coltivare quella prassi i due compositori - entrambi virtuosi degli strumenti da tasto - che si trovavano al servizio della corte di Weimar e coi quali era in più stretto contatto: chiese al suo antico maestro di composizione, Johann Gottfried Walther, e all'organista di corte Johann Sebastian Bach di effettuare trascrizioni simili a quelle che nei Paesi Bassi l'avevano così colpito. Walther ne realizzò almeno quattordici, e ventuno Bach; quasi tutte provengono da concerti italiani. Tra gli autori trascritti da Bach per organo o per clavicembalo, oltre a Vivaldi, figurano Alessandro e Benedetto Marcello, Georg Philipp Telemann, lo stesso principe Johann Ernst.
Nelle sue trascrizioni, Bach resta generalmente fedele all'originale; ma l'operazione non è compiuta nello spirito della semplice esercitazione: Bach, che appronta concerti destinati all'esecuzione vera e propria, effettua un lavoro almeno in parte creativo. Per questo le sue trascrizioni sono vere e proprie rielaborazioni. Le modifiche apportate all'originale sono dettate da ragioni diverse: a volte si tratta di adattare passaggi alla tecnica degli strumenti da tasto, altre di razionalizzare il discorso musicale; in ogni caso Bach interviene sempre con logica ed efficacia, senza farsi condizionare dai limiti tecnici degli strumenti, tanto che le nuove opere non tradiscono alcun impaccio. Un intervento tipico s i modelli italiani è costituito dall'ispessimento della scrittura, ottenuto con l'aggiunta di nuove parti contrappuntistiche che rendono la trama ritmica più complessa. Altre volte Bach rende l'armonia più vana; altre ancora orna le linee melodiche con complesse fioriture, soprattutto nei concerti trascritti per il clavicembalo, il cui suono a rapida estinzione rende difficile sostenere melodie dai valori larghi. La lezione offerta dai concerti italiani, in ogni caso, è preziosa per Bach, che ne adotterà poi il modello formale in molti movimenti della sua musica cembalo-organistica, orchestrale e da camera. Il semplice principio costruttivo alla base del concerto solistico vivaldiano, con la sua chiarezza esemplare, i temi nettamente configurati, la sua perfetta logica musicale unita all'estro, all'invenzione fantasiosa e imprevedibile, costituisce per Bach il punto di partenza. Ma la trascrizione dei concerti vivaldiani non comporta l'assimilazione completa di una forma e di un pensiero compositivo: al modello, Bach apporta modifiche sostanziali nel momento in cui realizza strutture più compatte per trama e concentrazione tematica. E' lo stesso comportamento che Bach adotta nei suoi concerti originali (nei concerti per violino di Köthen, ad esempio), per i quali il modello italiano non costituisce tanto uno schema normativo, quanto piuttosto una semplice traccia in cui incanalare l'immaginazione. Il contrappunto pervasivo fa sì che tutte le sezioni vengano inglobate in un tessuto polifonico costante e si compenetrino reciprocamente: il contrasto fra soli e tutti, cosi chiaro in Vivaldi, in Bach tende a sfumare. E' una scelta - lo vediamo bene nelle trascrizioni bachiane dei concerti di Vivaldi - che rende fluido il discorso e accentua la coerenza organica della composizione; ma è anche una scelta che sacrifica la «gestualità» così pregnante dei passi vivaldiani, la loro plasticità efficace e icastica. L'affastellarsi dei motivi nelle parti intermedie, l'elaborazione tematica costante, finiscono per offuscare le chiarissime architetture italiane, conferendo ai concerti bachiani un tipico colore «fiammingo». Nel confronto tra i concerti solistici di Bach e quelli di Vivaldi sembrano dunque fronteggiarsi due mondi lontani: da una parte la chiarezza e la trasparenza di scrittura del concerto all'italiana, unite a un'acuta percezione cromatica e a un senso quasi teatrale dell'eloquio musicale; dall'altra la complessità polifonica e l'astrazione del pensiero musicale puro. In questo contrasto stilistico è riflesso il perenne conflitto tra il colore mediterraneo e l'atteggiamento serio e misurato dell'Europa del Nord.
di Claudio Toscani (Amadeus, numero 1 (170), gennaio 2004)

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