Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, maggio 11, 2006

Trio di Trieste: da cinquant'anni accanitamente in tre

... «Herr... Herr...», ... «Herr, Herr»... l'ufficiale nazista marzialmente saliva al piano superiore dell'albergo Corso, ed il ragazzino Giorgio Vidusso fece appena in tempo a calcolare che a ogni tre, poi due scalini corrispondeva un affannoso «Herr» del suo compagno di pericolo, seguito dal vano tentativo di ricordarne il cognome. Si era a Trieste, appena cominciata l'occupazione tedesca, nel '43; Vidusso, ancora ignaro di una vita di direzioni artistiche ed anche della vita in generale, e l'altro, poco più grande di lui, dalla faccia un po' distratta, pianista di talento e ormai di professione, Dario De Rosa, erano stati arrestati, non si sa per qual scambio di persona, con l'accusa d'aver distribuito manifestini inneggianti al maresciallo Tito; e avevano aggravato, anche, i sospetti rispondendo qualche cosa come «Tito chi?», perché in quei giorni i ragazzini informati su quella che sarebbe stata poi la Resistenza erano pochi.
Dario De Rosa era non dico popolare, a Trieste, ma noto sì, ed ambito. Con i suoi due compagni, quello del violoncello, Libero Lana, e quello del violino, Renato Zanettovich, nella società musicofila cittadina era lo zucchero che insaporiva di buono le serate; e poiché musicofila era tutta la società triestina, italiana d'impulsi e di cultura asburgica, era insomma l'ingrediente necessario e qualificante d'ogni festa per bene. Ad uno di questi ricevimenti, appunto, aveva forse conosciuto, un poco, Herr l'Ufficiale che ora, in quell'hotel trasformato in luogo d'interrogatorii e destinato a trista fama, saliva per le scale.
«Herr... Herr», quando oramai lo stivalone batteva l'ultimo gradino, arrivò alla memoria il cognome, finalmente. E immaginiamo il resto: «Foi kosa fare qui, Maestro De Rosa?», «Ja», «Nein», e la liberazione. Ma immaginiamo facilmente anche il caso contrario: il cognome perduto, l'ufficiale irraggiungibile, «Nein», «Ja», e forse solo a guerra finita la commossa rievocazione di quel giovane Trio che per ben dieci anni aveva allietato le serate di tanti amanti della musica buona. Trio generoso, limpido. E neoclassicheggiante.

I tre piccoli allievi di conservatorio s'erano infatti uniti sotto la comune stella dell'amore della musica e della predestinazione al concertismo, ma anche sotto l'insegna della chiarezza classica. Una scelta curiosa, in una Trieste di quei giorni, vicina alla Mitteleuropa, ed in particolare alla espansione tardoromantica, decadente, in cui si fiutavano echi arcani nella musica come nella cultura, dove da cinque anni soli era morto Svevo, dopo aver gustato il successo grazie al professore di inglese, che era James Joyce, e da anni nella sua libreria Umberto Saba mescolava culture e pensieri con le vincenti immagini della propria poesia. L'ombra del dottor Freud aleggiava sulle scoperte e sulla sensibilità, come a ricordare che il conflitto delle contraddizioni e l'irrimediabile spinta degli affetti e delle pulsazioni umane è materia più d'analisi che non di scelte. Un mondo, eppure, dove queste nuove scoperte non s'aggrovigliavano, eran quasi materia di dibattito petulante o distaccato, ma sereno, e, quasi inspiegabilmente, d'una strana nostalgia di grandezza lontana. C'è ancora chi ricorda il tono carico della voce profetica, iniziatica in quel momento - del Maestro Kessissoglu, mentre pronuncia fortemente alla tedesca il nome, ancora ai molti ignoto, Gustav Mahler.
I ragazzini del Trio di Trieste erano invece sotto l'ala di Umberto Nigri, che dai labirinti rifuggiva e delle ridondanze chiedeva pulizia: e, un po' per naturale un poco per polemica discepolanza, si schierarono decisamente per la Classicità.
Che cosa avevano, nel peso delle scelte, le loro menti? Quale mai destino potevano già scegliersi i deliziosi dodicenni? Adesso è facile capire che la vocazione, anche per loro, nasceva un po' da dentro e un po' da fuori, come ogni vocazione concreta; e insomma era fatale che essi optassero per il nitore, se dovevano poi suonare Schubert in quel modo stupefacente senza un pelo d'enfasi o di vertiginose allusioni a sentimenti aggiunti a quello interno della partitura. E ci è facile pensare a quell'antica verità per cui si riconosce. Ma allora questa scelta casta e razionale li portò a giocar subito le carte della polemica, quella decisa ma cordiale a parole e quella inattaccabile e feroce nella musica. Presero subito, così, quell'abitudine che adesso hanno ancora, lo studio come ripulitura, come scelta dell'essenziale, e ogni volta ritornando da capo, come se il pezzo fosse sconosciuto. Il che significa credere nella fedeltà sorgiva alla musica, proprio sentita come classica, quasi al di là del tempo, perpetuamente presente.
Così, con accanita fedeltà, i tre ragazzini crebbero accaniti, litigando su ogni dettaglio d'ogni autore, concordi poi come un sol uomo nella esecuzione; via per concerti e tournées in tutto il mondo; consapevoli ahimé che attorno guerre e stravolgimenti lo rendevano così diverso dalla cara, bonaria, città delle origini, e anche dalla sorgente luminosa cui Haydn, Schubert, Brahms si erano abbeverati; pronti a incontri decisivi, come Ghedini, che aprì loro lo spiraglio per far entrare l'affettuosa chiarezza classica nella musica contemporanea, componendo anche musica per loro, come il Concerto dell'Albatros, da loro per la prima volta eseguito, con Gianandrea Gavazzeni direttore, altra persona formidabile per aprire orizzonti culturali, aizzando dubbi nuovi ed esaltando a contraggenio antiche certezze. E pronti a capire e far capire Ravel, a cercare le ragioni fonde della musica contemporanea a petto del mondo, ma anche decisi a sostare incollati agli strumenti per decidere se far due arcate in giù oppure una in su, l'altra in giù (per una cosa così, ci si può accapigliare). Musicisti, insomma.
E, fino al 1961, quando Amedeo Baldovino, violoncellista di nascita egiziana e di gloriosa scuola bolognese e romana, non sostituì Libero Lana, anche con quella storia dell'aereo da prendere proprio soltanto dopo essersi bene assicurati che non sia in costruzione, per caso, un ponte sull'oceano.

Adesso non soltanto il 1933 è lontano, e non solo il '43 dell'hotel Corso; ma anche oramai il Sessantuno. E pensate quanti avvenimenti in mezzo. Se avete vecchie agende, con vostre annotazioni, c'è da avere un malore. E se avete raccolte di giornali! In mezzo a tanto bailamme, scherziamo?, cinquant'anni sono passati e i ragazzini son sempre lì, fedeli, scrupolosi.
Li guardo. E' festa, intima, tranquilla: una delle serate con un quieto affettuoso «dopo-teatro» in loro onore, dopo una delle stagioni inaugurate nell'anno anniversario. Eccoli lì, sempre con l'aria fra svagata e assorta. Quello un po' spiritato, è Zanettovich, che del Trio rappresenta lo scatto, la tensione. Fama di libertino, in gioventù, senza togliere nulla all'ascetismo del mestiere (avrebbe ora cent'anni Saba, che scriveva delle «femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio»: ah, conciliante Trieste!). Da lui, m'han detto, si cava ben poco, in un'intervista. «Noi facciamo la musica che c'è scritta», pare abbia rilasciato una volta come importante dichiarazione, una specie di credo, suggestivo ma reticente. Quello sul divanetto, che sorseggia pacato una prelibatezza offerta dalla padrona di casa, è Amedeo Baldovino. Lui conversa con brillantezza, invece; ma a parlare di musica, varia appena con qualche coloratura il tema del ritornello: «Oh sì, io insegno violoncello, sì, insegno la musica da camera. Dico sempre che tutto il corso può stare in dieci minuti, basta spiegare che uno deve suonare quello che è scritto. Ecco, il problema è come. C'è una questione di idee, e anche di fisico. E un rapporto con il legno dello strumento. Intervenire qui è difficile. Eppure trasmettere il segreto d'un'arte vuol dire capire una persona, dargli l'esempio, insegnargli il rigore della partitura ma anche la libertà della sua persona... ».
- Maestro, Lei suona un violoncello famoso, il «Mara» Stradivario 1711, che è in uno stato perfetto. Che cosa si deve fare per conservarlo tanto mirabilmente?
«Come rispondere? Ci vuole molta cura. Molta attenzione. Ogni riguardo. Eppure, se devo confessarlo, a me sembra che suoni molto meglio dopo l'inzuppata».
Allora, qualcuno mi spiega che devo cercare di De Rosa. Ma è un tipo schivo, dall'aspetto solitario. Certo, potrebbe ben parlare di tante cose, d'arte (ha in casa un paio di Klee ... ), di montagna (è un eccellente camminatore)... Ma è meglio non tentare il gioco delle domande. Meglio lasciarlo in mezzo agli altri, e cercare, senza parere, di costringerlo al racconto del famoso episodio degli strumenti inzuppati. Rocambolesco racconto, che alla fine suona press'a poco così.

«Eravamo a Montevideo. Traversavamo il Rio della Plata di Notte, su un traghetto stipato oltre misura. A un tratto, dalla cabina udii: senior, senior. Sembravano scherzare, forse no. Uscii, e progressivamente era aumentato il tramestio. C'era una confusione, e non capivo perché. Poi a tutti fu chiaro che bruciava la nave. Era assolutamente necessario buttarsi. 0 almeno, allora era sembrato così; perché nessuno poteva immaginare che la nave non sarebbe affondata, ma sarebbe restata mezza fuori, appoggiata ad un basso fondale dove qualche d'uno dell'equipaggio, ubriaco, l'aveva condotta, ricevendo il timone dalle mani del capitano ubriaco. Notte fonda, d'inverno. C'era nebbia. C'era disgusto nel buttarsi in acqua. Faceva freddo. Mi salvò una ragazza: gradevole, gentile, come un'apparizione: mi spiegò di tornare un passo indietro e, prima di tuffarmi, togliermi il cappotto. Ci buttammo con gli strumenti. Baldovino, ho l'impressione, fu aiutato molto dal suo, che galleggiava benissimo, e poteva aiutarsi. Zanettovich invece pianse per un po' sul suo Guarnieri del Gesù perduto, finché questo arrivò a riva per conto suo, come fosse una bottiglia. Entrambi li suonano anche adesso, funzionano perfettamente. Mentre riemergevano, ognuno si trovò presto solo. Non fummo ripescati. Ho visto decine di cadaveri, centinaia. Non lontano da me, l'Abbé Pierre aveva predisposto un circolo, faceva cantare i naufraghi in litanie, per tenere sveglio lo spirito e il corpo; ogni tanto però qualcuno sprofondava inghiottito. A un tratto non sapevo più se ero per caso vivo o morto: la percezione non è facile, in queste situazioni. Udii delle altre litanie, questa volta come «ohhhò» ripetuti, regolari. Mi chiesi se fossero angeli. Mi unii istintivamente al coro. Così mi udirono, eran le squadre dei soccorritori. Mi trovai ore dopo sotto una coperta, al caldo, vivo, e vidi gli altri del Trio, salvi; e vidi la ragazza che m'aveva salvato con la storia di togliersi il cappotto, e n'ebbi una calda felicità. E vidi la vita, e vidi il mondo; ma da quell'ora, ormai definitivamente, come da un cannocchiale a rovescio ».

«Herr... Herr...», quarant'anni da quel giorno, cinquanta dal primo concerto. Si direbbe che ormai si siano abituati a guardare dal cannocchiale a rovescio tutta la loro storia. A cominciare da quella che potremmo ormai timidamente anche dir gloria: «Kammermusikalische in Superlativen», come han scritto a Mannheim, «immense message musical», come hanno commentato a Ginevra, «perfection», quel vocabolo ricorrente per loro nelle critiche musicali da Edimburgo a Lucerna, «superb» come hanno scritto a Hong-Kong, «almost magical» come si sono espressi ad Ottawa, o «triple maravilla» come a Montevideo, «world's best Trio» come a Johannesburg, se uno pesca fra gli innumerevoli giornali può trovare una collezione di iperboli. Uno di Roma ipotizza: «Nell'Olimpo, tra gli Dèi, si doveva suonare così». Ma non sembrano affatto sentirsi dèi. Anzi, non suonano nemmeno come divinità. Siedono intenti, un po' tesi, e attenti che la musica arrivi nitida come la prima volta che scaturì. Solo verso il finale ormai s'avverte un'ebbrezza di vittoria. Le ultime battute, spesso, hanno una carica di stupore. L'ultimo accordo dice sorpresa che anche questa volta quasi fosse la prima - il pezzo s'è compiuto. Forse ognuno di loro uscendo pensa un po' come quella sera Svevo: «La notte era chiara e calda. Mi levai il cappello per sentir meglio la brezza della libertà. Guardai le stelle con ammirazione come le avessi conquistate da poco».

di Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno VII n.12, dicembre 1983)

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