Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, marzo 01, 2006

Musica degenerata: una piccola storia fra roghi millenari

Partiamo da un'immagine blandamente retorica, avvertendo che per qualche riga - via, diciamolo, almeno per un capoverso se non due - parleremo di problemi non musicali. E' irrinunciabile: un argomento di tal peso esige una serie di definizioni, di correzioni impietose e forse crudeli, di tabulae rasae ma rasae davvero a colpi di rasoio. Lo sappiamo: ai cortesi e pazienti lettori riusciremo sgradevoli. Ma dobbiamo alla nostra fede nel neopositivismo logico-matematico, unico orientamento di pensiero che riteniamo possibile nel quadro di un obbligatorio nihilismo e di un radicale scetticismo, l'uso delle "proporzioni protocollari" teorizzate da Carnap, da Neurath e in genere dal Wiener Kreis. Cerchiamo assiomi di partenza che siano assolutamente certi (non "veri", poiché non sappiamo che cosa sia il vero) o almeno non soggetti a contraddizione. Coraggio. Si diceva: un'immagine blandamente retorica. Meglio dire: un nesso o un grumo di immagini costrette a coesistere nello stesso quadro senza autentica giustificazione. Quando parliamo di entartete Kunst ("arte degenerata") e rabbrividiamo al sentore nazisteggiante di tale espressione, immaginiamo uno di quei dipinti allegorici tipici della pittura austriaca dell'Ottocento, con scene diverse e riferite ad eventi lontani nel tempo, ma raccolte visivamente tutte insieme. Vediamo con l'immaginazione roghi di libri nella notte, lugubri camicie brune che sorridono diabolicamente, intellettuali israeliti cacciati in esilio o sospinti nei treni che li porteranno ai Lager, tipografie devastate, vetrine infrante e saracinesche di botteghe con sopra scritto "Jude" in vernice bianca, notte dei cristalli. Poiché la sinistra suggestione del fuoco e del rogo è più forte delle altre, più riassuntiva e simbolica, e soprattutto più infernale, siamo spesso indotti a fare una tremenda confusione, a combinare il fuoco con la degenerazione, e a dire, con formula da bigino di storia per i licei, che "il nazismo bruciava l'entartete Kunst". Non mancano approssimativi accostamenti "didattici", di un'approssimazione che non può essere giustificata dalla necessità di compendiare. Potremmo citare, se la loro modesta qualità generale lo meritasse, almeno tre manuali di storia per i licei, oggi circolanti nelle scuole, in cui, nel capitolo sulla crisi tedesca tra le due guerre, proprio il capoverso che parla con giusta esecrazione della lotta sferrata dai nazisti alla entartete Kunst è affiancato dalla solita fotografia con le camicie brune e i giovani imbecilli della Hitler-Jugend che gettano quintali di libri in un falò divampante (i giovani imbecilli sorridono, e il perpetuo sorriso è un tipico contrassegno dell'imbecillità). Tutto questo porta fuori strada, e di molto. I roghi di libri e la censura nei confronti dell'arte ispirata dal surrealismo e dall'espressionismo sono forme diverse della politica culturale promossa dal nazionalsocialismo: due forme ugualmente odiose, ma distinte nelle loro radici, e non interdipendenti. Potremmo immaginare facilmente una dittatura rozza e malvagia che perseguiti scrittori d'opposizione e intellettuali irriducibili senza censurare i pittori astratti e informali, o viceversa. Le due distinte radici, eterogenee nella loro origine e natura culturale, sono il totalitarismo ideologico, del quale il rogo dei libri è l'effetto estremo, e lo spirito conservatore in senso gretto (Schumann lo avrebbe chiamato "lo spirito filisteo") che coltiva in sé l'idea di degenerazione dell'arte e l'avversione per ogni prodotto artistico rivelatore di crisi, di scetticismo e di nihilismo, o sperimentale, o provocatorio. Certo, le due distinte radici, se risaliamo a categorie generali, hanno un'ascendenza comune, così come individui lontanissimi per etnìa, nascita, lingua, cultura, indole, potrebbero avere, se risaliamo la catena degli ascendenti e di generazione in generazione ne dimezziamo il numero, un antenato comune. Quella categoria generale è l'intolleranza, che tuttavia è sempre un concetto generico, dai molti e incerti significati. E' un atteggiamento detestabile e miserabile, e lo dobbiamo combattere senza pietà, se è intolleranza verso i più intelligenti e intransigenti e verso gli smascheratori delle false verità. Del resto, questo tipo d'intolleranza è universale e perenne, come ci insegna l'aforisma di Goethe: "La maggioranza degli uomini cerca sempre individui superiori e più valenti che la guidino, ma quando li ha a disposizione non riesce a sopportarne il peso, ed è costretta a ricorrere ai mediocri". L'intolleranza di cui furono vittime Socrate o Gesù Cristo o Friedrich Nietzsche dà ragione all'enunciato goethiano. Lo stesso si dica dei Templari e dei cosiddetti "eretici", perseguitati e uccisi, o degli eroi del pensiero filosofico e scientifico come Bruno e Galilei. Ma l'intolleranza non è un male, anzi, è giusta e doverosa, se colpisce la delinquenza, l'arroganza, il vitalismo chiassoso; se è intolleranza contro gli intolleranti, i dogmatici e i fondamentalisti di ogni risma. Abbandoniamo perciò questo terreno paludoso, questo concetto nebuloso e ambiguo. Ritorniamo alla certezza delle distinzioni.
Distinguere non è soltanto utile perché assicura idee chiare e certe. E' giusto in sé ed è una salutare correzione, poiché di solito si tende a confondere e a semplificare. Se distinguiamo i due effetti d'intolleranza, e se rammentiamo che l'intolleranza è di quei due effetti un ascendente remoto poiché essa ha padri e madri e nonni più prossimi - l'ottusità, la paura, la gretta conservazione dell'esistente, persino il complesso d'inferiorità dinanzi al bello e il corrispondente amore per il più rassicurante brutto -, dobbiamo ammettere che, singolarmente presi, il rogo dei libri e la censura nei confronti dell'"arte degenerata" non richiamano immediatamente alla memoria storica, ciascuno per proprio conto, il nazismo. Lo richiamano se presi insieme, come nodo storico occasionale, ma su questo dettaglio tenteremo tra poco una clausola finale. Non avere capito questo, pur nella nobile e intelligente iniziativa del fornire materia visiva, documentazione storica, testimonianze dolorose e penetranti, giudizi illuminati, è il limite della videocassetta pubblicata dalla Decca Record Company e intitolata Entartete Musik, musica soppressa dal nazismo, cui si affianca una serie di Cd con la stessa denominazione generale e già presente sul mercato con due "degenerate" opere teatrali, Das Wunder der Heliane di Erich Wolfgang Korngold e Jonny spielt auf di Ernst Krenek (Decca 436 636-2 e 436 631-2). Senza offesa, ci sembra proprio che la distinzione non sia stata capita, poiché nella sintesi offerta dalla Decca la persecuzione contro la musica di Korngold, Goldschmidt, Zemlinsky, Krenek, Mahler, Schönberg, eccetera, aspetto particolare della più generale persecuzione sferrata dal nazionalsocialismo contro l'entartete Kunst, è attribuita soltanto al nazismo, e sembra che il nazismo sia venuto dal nulla, come malattia infettiva, come corpo estraneo inserito per diabolico accidente in una grande, illuminata e democratica cultura. In aggiunta, si noti come l'ampio panorama offerto dalla musicassetta insista soprattutto (e giustamente, secondo le ragioni della fenomenologia storica) sui connotati ebraici della maggior parte dei musicisti perseguitati: quasi tutti, con l'eccezione di Krenek, Zemlinsky e pochi altri, eredi di quella tradizione ebraica mitteleuropea che è stata il sale della cultura d'Occidente e la più acuta e rivoluzionaria fra le forze produttrici di idee nel nostro secolo. E' giusto, si diceva, insistere su questo aspetto, poiché in tal modo la persecuzione contro l'entartete Musik si colora turpemente di razzismo e di genocidio. Ma anche questo, se è lecito, porta un po' fuori strada, dal momento che la realtà storica fu, se è possibile, ancora peggiore, e ben altro che il nazismo ne porta la responsabilità. Esaminiamo separatamente i due aspetti, il rogo infernale e la calunniosa accusa di degenerazione, e vedremo come ciascuno di essi, isolato dall'altro, abbia radici prenazistiche ed extranazistiche. Il nazismo fu una conseguenza piuttosto che una causa.
Bruciando i libri, i nazisti non fecero altro che seguire un'antica lezione, secondo il modello degli Stati autoritari e dei poteri religiosi; di questi ultimi, soprattutto. A volte le notizie sono leggendarie, ma nulla di leggendario è privo di fondamenti reali, almeno di verosimiglianza. Si dice che un imperatore della Cina, Shi-Huang-Ti, non appena asceso al trono ordinò due azioni parallele: dare alle fiamme tutti i libri scritti prima del suo regno, ed erigere la Grande Muraglia. Poiché la Grande Muraglia c'è e si vede, se ne induce che essa fu costruita davvero, il che a sua volta lascia credere che anche l'altro ordine sia stato eseguito. Il rogo dei libri aveva il fine di cancellare il passato, l'erezione della Grande Muraglia aveva il fine opposto, quello di rendere impossibile il futuro, preservando la Cina da qualsiasi novità avvenuta dall'esterno. Il tutto, per difendere l'assolutezza del presente, cioè del potere di Shi-Huang-Ti. Questa motivazione è di natura metafisica, a modo suo nobile anche se assurda, crudele e mostruosa. Sappiamo di un altro illustre incendio di carta o pergamena scritta, e di quale scrittura! Nel VII secolo dopo Cristo, la più famosa biblioteca del mondo e la più importante di tutti i tempi e di tutte le plaghe, la biblioteca di Alessandria d'Egitto fondata novecento anni prima da Demetrio Falereo su incarico del re Tolomeo Soter (322-285 a. C.), fu incendiata da un arabo ignorante, Arm-Jbn-al-Ass, generale dell'esercito musulmano che strappò Alessandria e l'intero Egitto all'impero romano d'Oriente. Nel distruggere quel mirabile compendio di tutta la cultura antica, quel sacrario di idee e d'intelligenza creativa, l'arrogante beduino seguì un ragionamento "laico" tipicamente khomeinistico: "Che cos'è questa robaa?", egli domandò agli atterriti bibliotecari. "Sono libri", gli fu risposto. "E dentro, che cosa c'è?". "C'è ogni verità mai pensata, ogni scoperta dello spirito, ogni bellezza lasciata in eredità da chi ci ha preceduto". Amr-lbn-al-Ass rispose: "Tutta la verità è già presente nel Corano. Se questi libri, come li chiamate voi, contengono la medesima verità, sono superflui, e vanno bruciati. Se invece contengono verità diverse da quelle contenute nel Corano, vanno bruciati per il motivo opposto". E la grande biblioteca divampò riducendosi in cenere. Forse non bruciò tutta, forse qualche invasore meno bestiale degli altri salvò alcuni libri e ne permise la continuità, tanto è vero che proprio un arabo musulmano (ma eretico, si badi!), Ibn-Roshd detto Averroè nel mondo occidentale, ci salvò l'opera di Aristotele, e un altro arabo eretico e laicizzante, Al-Fargliani detto da noi Alfraganus, ci salvò gli scritti di Claudio Tolomeo. Ma non è questo che conta: sono dettagli affidati al caso, sono le hegeliane astuzie della Storia. Conta la volontà di distruggere tutto ciò che è pensiero, idea, bellezza e civiltà. Conta il danno immenso comunque arrecato alla nostra eredità comune e ai tesori della civiltà, la civiltà occidentale non inquinata da religioni orientali, la civiltà laica, pagana, precristiana, non moralistica e non sessuofobica. Nel cristianesimo non si è stati da meno che nell'islamismo. Un esempio fra tutti: il cardinale Bertrando del Poggetto, che pochi anni dopo la morte di Dante Alighieri fece incendiare pubblicamente a Bologna tutte le copie esistenti in città del trattato politico dantesco De Monarchia, "libro empio e pestilente". Pare che l'alto prelato meditasse di far lo stesso con la Divina Commedia. Ci sia permesso rammentare un episodio personale, di quando frequentavamo la scuola media: uno zelante professore di religione sequestrò tutti i libri proibiti e "osceni" che avevamo nella cartella insieme con i manuali scolastici, e li bruciò pubblicamente in cortile, per darci una lezione e, presumibilmente, per salvare le nostre anime (era il 1947!). Citiamo alcuni titoli: i Racconti di Poe, Le rouge et le noir di Stendhal, La peau de chagrin di Balzac, nostro possesso personale (quest'ultimo libro suscitò particolare orrore nel sant'uomo). Tra il Cardinale Bertrando del Poggetto e l'oscuro catechista, la tradizione cattolica è illuminata in senso non illuministico da un'interminabile sequenza di allegri falò, decisi vuoi dall'Inquisizione di Spagna, vuoi dalle scuole salesiane, vuoi dalla congregazione per l'Indice. Naturalmente, protestanti e ortodossi, soprattutto puritani, hanno fatto bravamente la loro parte.
Quanto alle varianti della confessione islamica, si pensi alla storia dell'Iran negli ultimi quattordici anni: è rallegrante.
Ma già, i roghi dei libri non c'entrano con l'entartete Kunst e con l'entartete Musik. Sono gli altri che hanno associato a forza i due argomenti; noi li dissociamo e ci occupiamo di quello che davvero ci riguarda. Dunque, si diceva poc'anzi: immaginiamo una dittatura rozza e malvagia che perseguiti gli scrittori d'opposizione e gli intellettuali irriducibili senza censurare i pittori astratti e informali e senza porre il veto agli stili sgraditi al regime nelle arti visive e nella musica, una dittatura che pratichi i roghi di libri e gli esili e le condanne a morte o al Lager per chi esorti alla resistenza civile e morale, ma che non organizzi mostre di quadri per additare con scandalo ai buoni cittadini le degenerazioni dell'arte, e che non prenda a bacchettate i musicisti inclini agli sperimentalismi, all'avanguardia e ad altri crimini di radice individualistico-borghese o ebraico-bolscevica. Insomma, una dittatura implacabile nella repressione ideologica ma morbida o addirittura indifferente di fronte alla creatività del linguaggio artistico. Ebbene, una simile ipotesi ha avuto ed ha innumerevoli incarnazioni storiche. Nella fenomenologia dei regimi autoritari, due soltanto, il nazionalsocialismo e lo stalinismo, hanno riunito in sé il terrore ideologico e la pretesa di dettare norme di estetica. Tutti gli altri hanno rinunciato alla seconda prerogativa, pur lasciando intendere le proprie simpatie. Non c'è stata un'estetica ufficiale del fascismo italiano, del falangismo spagnolo, del salazarismo portoghese, del fascista Codreanu o del neo-stalinista Ceausescu in Romania, di Pinochet in Cile, di Castro a Cuba. Anzi, un regime come il castrismo ha persino, in certe occasioni, incoraggiato l'avanguardia. Il regime dei colonnelli in Grecia osò dettar legge in campo estetico al principio della sua turpe tirannide, ma fu fuoco di paglia. Nella Cina popolare, fu il fondamentalismo apparentemente irreligioso (in realtà "religiosissimo") della cosiddetta rivoluzione culturale e delle Guardie Rosse a perseguitare le manifestazioni artistiche sospette di occidentalismo borghese, non proprio il regime di Mao-Tse-Dong, che anzi alle Guardie Rosse dovette per qualche anno, senza parere, prestare ubbidienza. Abbiamo distinto, e non siamo i soli, la posizione del fascismo mussoliniano da quella del nazismo hitleriano. Ciò non significa che, nel nostro giudizio, il fascismo sia stato "migliore" del nazionalsocialismo. Fu meno irrespirabile, ma proprio perciò più losco e sprezzante, come mostreremo alla fine del nostro discorso. Però la distinzione è nei fatti, valga quel che vale. C'era già il regime fascista in Italia, quando alla Società del Quartetto di Milano furono eseguiti da Walter Gieseking i Klavierstücke op.19 di Arnold Schönberg (12 gennaio 1923); quando, a Firenze, Palazzo Pitti ospitò Pierrot lunaire alla presenza di Schönberg (1° aprile 1924); quando il Quartetto Kolisch suonò, ancora alla milanese Società del Quartetto, tre tempi della Lyrische Suite di Alban Berg (14 marzo 1934). Clamorosa per anomalia rispetto alla politica culturale del nazismo fu la prima rappresentazione italiana di Wozzeck all'Opera di Roma diretta dal "germanizzante" Tullio Serafin (3 novembre 1942), voluta dallo stesso Mussolini che voleva in tal modo compensare con un atto d'indipendenza intellettuale la sua soggezione sempre più pesante all'alleato tedesco. Nessuno, in Germania o in Austria, avrebbe osato eseguire una composizione di Alban Berg, e tanto meno quell'opera antimilitaristica e libertaria. Se nel 1923 o 1924 il fascismo era insediato al potere da poco, non ancora saldissimo, nel 1942 la sua politica interna era dura e soffocante, controllata da vicino da Goebbels per quanto riguarda la cultura e l'arte: sono note le invadenze di Goebbels alle precedenti mostre d'arte cinematografica di Venezia.
Preveniamo le obiezioni. Certo, nell'Italia fascista i musicisti della Wiener Schule, in generale i compositori di origine israelitica, e ancor più in generale la musica d'avanguardia, erano censurati, diffamati e perseguitati nella maniera più odiosa; non però dal regime fascista in quanto tale, bensì da coloro che, professionisti della musica, si assumevano il ruolo di mosche cocchiere del regime. In particolare, dall'infame triade, Adriano Lualdi, Giuseppe Mulé, Ennio Porrino, cui si aggiungeva, nel campo della musicografia e della critica musicale, Guido Pannain. Sappiamo che Lualdi tacciò Schönberg di essere l'emissario di una fantasiosa internazionale atea e bolscevica della musica; che lo definì pazzo da manicomio e tarato da oscure malattie, giocando anche sul miserabile calembour, Schönberg=Mombello (l'ospedale psichiatrico di Milano); che anche negli anni Cinquanta, finita la guerra da dieci anni e confinato fra i brutti ricordi il fascismo, lo mise in berlina nell'opera Il diavolo nel campanile rappresentata a Firenze (1954). Guido Pannain, in Musicisti dei tempi nuovi (Paravia, Torino 1932, p. 55) descrivendo la musica di Schönberg parlò (il corsivo è nostro) di "uso degenerato degli accordi e degli intervalli", segno di sensibilità democratica e di ostentata ricerca d'effetto. Avete capito? Ecco l'accusa di degenerazione là dove il nazismo proprio non può essere invocato. Anzi, Pannain, che riferiva un'analoga degenerazione alla musica di Richard Wagner e di Richard Strauss, si proponeva così di combattere una battaglia sana e nazionale in nome dell'italianità solare e mediterranea, tutta melodica e senza complicazioni intellettualistiche. Quel nazionalismo, grazie al quale l'idea di degenerazione assume una dimensione in più, era un chiodo battuto e ribattuto in proprio dall'autoproclamata polizia musicale dell'Italia fascista; il regime in quanto tale si limitava a prenderne atto con benevola ma talora infastidita indifferenza, come avvenne nel 1932, quando Lualdi organizzò a Bologna l'Esposizione dei musicisti fascisti insieme con Porrino, Mulé, Zandonai, Pizzetti, ed ebbe filo da torcere nell'affrontare una fronda agguerrita, quella che organizzò in quell'anno il Festival di musica contemporanea a Venezia: Ferdinando Ballo, Luigi Dallapiccola, Gianfrancesco Malipiero, e in parte Alfredo Casella, "mediatore" tra lo spirito di Bologna e lo spirito di Venezia. In quell'occasione, Lualdi e la sua Inquisizione musicale ebbero la sgradita sorpresa di vedere come le autorità del regime inclinassero piuttosto verso Venezia, per snobismo modernizzante in armonia con le tesi bontempelliane di Stracittà e con i trionfi della tecnica fascista quali il Nastro Azzurro assegnato al Rex e la Crociera del Decennale. I "bolognesi" inviarono al Duce un manifesto di protesta sub specie obsequii.
Altro che nazismo! Il timore della degenerazione (un accordo troppo alterato, una modulazione troppo eterodossa, il politonalismo) fu caratteristica di brave persone, di insospettabili spiriti liberali, di musicologi intelligenti inclini all'assoluta libertà e onestà intellettuale. Eduard Hanslick sentì la degenerazione nella musica wagneriana dopo Lohengrin. Le buone famiglie borghesi, a Berlino come a Vienna, giudicarono morbosa e malata la musica straussiana di Salome, e questo nel 1905. Gran parte della critica musicale europea giudicava "messe nere in musica" le sinfonie di Mahler. La prima esecuzione del Quartetto op.7 di Schönberg nel Bösendorfer-Saal di Vienna (5 febbraio 1907) suscitò fra il pubblico fischi e urli, sghignazzi e insulti. Si parlò apertamente di decomposizione e corruzione della musica, di mostruosi innesti. Il tutto accompagnato dal virulento blateflo antiebraico che in tutta la seconda metà dell'Ottocento e fino al 1933 non ebbe bisogno di Hitler per diffamare e insolentire musicisti come Mendelssohn, Meyerbeer, Méhul, Offenbach, Goldmark, Rubinstein, Mahler, Schönberg, Korngold, Goldschmidt, e s'incarnò in illustri rappresentanti come Cosima Wagner e Franz Strauss (talora ci cascò anche, ahinoi, il più famoso Strauss, il figlio di Franz... ). La politica culturale del nazismo piovve sul bagnato. Ma anche il fascismo, se avesse dettato norme estetiche come il nazismo, sarebbe stato un piovere sul bagnato, per analoghi motivi. Lo fu, in certi frangenti, il postfascismo, che simili norme osò talora farfugliare. Anche Dallapiccola, anche gli esordienti Nono e Maderna furono coinvolti nel concetto filosofico di culturame teorizzato da un ministro degli interni degli anni Quaranta e Cinquanta, Mario Scelba.
Detto questo, e soltanto dopo averlo detto, possiamo prendere a bastonate il nazismo. Nella sua politica culturale, il nazismo fu meno meschino e meno illiberale di quanto non sia stata nei secoli, per esempio, la Chiesa cattolica, ma disse ugualmente le sue brave idiozie. Nella videocassetta pubblicata dalla Decca una vibrante e legittima indignazione accusa il regime hitleriano di avere stroncato la personalità di compositori potenzialmente grandi, di averli svuotati dall'interno e di averli parzialmente cancellati dalla storia della musica. L'esilio e la diffamazione perversa possono uccidere l'anima, e se anche la libertà risorge il tempo non ritorna indietro, e le energie distrutte non rinascono. Fu la sorte di Berthold Goldschmidt, rimosso da ogni possibilità di presenza attiva come musicista creativo, condannato alla penombra e alla solitudine nell'esilio londinese, sottovalutato e tenuto ai margini. Lo onoriamo come direttore d'orchestra e come musicologo ma non è ciò cui la sua vocazione e il suo talento gli davano diritto. Qualcosa di simile accadde a Erich Wolfgang Korngold, quanto mai promettente nelle sue preziose opere teatrali e nelle squisite composizioni da camera scritte ancora nell'adolescenza, e ridotto a scrivere musiche per film. Che poi quelle colonne sonore gli abbiano dato fama hollywoodiana e ricchezza non ripaga. Eß come quando un infelice è sbattuto in carcere per trent'anni in seguito a un errore giudiziario. Se pure l'errore si svela, egli esce di prigione decrepito, e nessuno lo risarcisce degli anni di cui il potere ottuso e infame lo ha derubato, anche se i poliziotti e i giudici gli chiedono scusa (di solito non si degnano neppure di farlo).
Un'altra caratteristica del nazismo - come di altri regimi autoritari - in campo musicale fu l'assoluta ignoranza e l'incapacità d'individuare gli obiettivi. Ascoltiamo i Cd della serie Entartete Musik pubblicata dalla Decca. Ammesso e non concesso (noi certo non lo concediamo) che la formula entartete Musik abbia un senso, le due opere in questione, Das Wunder der Heliane di Korngold e Jonny spielt auf di Krenek, che cosa hanno a che fare con la "degenerazione" quale i nazisti la intendevano alludendo, per esempio, a Schönberg o a Webern? E le opere di Zemlinsky? Korngold e Zemlinsky scrivono in un raffinato linguaggio tardo romantico che i nazisti mostravano di apprezzare in Franz Schmidt e in Franz Schreker. E Krenek? Avevano, i gerarchi della cultura nazionalsocialista, i mezzi per distinguerlo da Hindemith o da Norbert Schultze, autore dell'opera Schwarzer Peter graditissima a Goebbels e della canzone Lili Marleen?
Ottusità, ignoranza, miopia; a questo il nazismo aggiunse il fuoco e il terrore ideologico. A grandi linee, e tentando una distinzione tra due forme estreme di persecuzione dell'arte, il nazionalsocialismo ateo e pagano e il fondamentalismo religioso, si può dire che il nazismo si nutrì di odio per l'arte, il dogmatismo cattolico di disprezzo. L'odio è qualcosa di meglio: può rovesciarsi in amore, o nascondere un amore inconfessato. Sappiamo che molti gerarchi nazisti amavano follemente certa musica con la stessa intensità con cui ne odiavano dell'altra. Molti erano appassionati ascoltatori di Beethoven, di Brahms, di Wagner, di Bruckner ed erano, magari, eccellenti pianisti o violinisti dilettanti. Non ci consta che fra i papi, i cardinali e gli arcivescovi degli ultimi tre secoli sia mai apparso qualcosa di simile. Nulla di simile, certo, nei mediocri regimi "liberal-democratici" degli ultimi quarantacinque anni. Nulla di simile nell'Italia posfascista. Il motivo profondo lo ha spiegato Edgar Wind nel libro Art and Anarchy (1963). La Repubblica di Platone, che considera l'arte e gli artisti un pericolo per la società, capisce a fondo la natura dell'arte, che è davvero "pericolosa". Platone sapeva meglio di noi che cos'è l'arte, e giustamente la temeva, poiché i poteri dell'immaginazione sono quanto di più vicino a un fuoco trasformatore e distruttivo. Eß giusto che il potere politico o ecclesiastico tema l'arte, e in particolare la musica, arte dionisiaca. I regimi che "tollerano" l'arte, e che magari la proteggono con sovvenzioni e regalìe, rispettano meno la sua dignità di quanto non faccia il persecutore e distruttore. Il nazismo considerava l'entartete Kunst una pericolosa malattia; i teorici del culturame l'hanno considerata un'oziosa frivolezza. Combattiamo perché una simile scelta non ci sia mai imposta dalla forza delle cose.

Quirino Principe (Musica Viva, Anno XVII n.10-11, ottobre-novembre 1993)

1 commento:

Anonimo ha detto...

"il regime in quanto tale si limitava a prenderne atto con benevola ma talora infastidita indifferenza, come avvenne nel 1932, quando Lualdi organizzò a Bologna l'Esposizione dei musicisti fascisti insieme con Porrino, Mulé, Zandonai, Pizzetti, ed ebbe filo da torcere nell'affrontare una fronda agguerrita, quella che organizzò in quell'anno il Festival di musica contemporanea a Venezia: Ferdinando Ballo, Luigi Dallapiccola, Gianfrancesco Malipiero, e in parte Alfredo Casella, "mediatore" tra lo spirito di Bologna e lo spirito di Venezia."
A me risulta che Lualdi sia stato tra i primi organizzatori del "Festival di Musica Contemporanea" a Venezia (dal 1930 al 1934).
Nel 1932, nello specifico, presentò con successo la sua Granceola.

Le accuse di "degenerazione" sono state lanciate sia da una parte della barricata che dall'altra.