Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, marzo 25, 2006

Christopher Hogwood e la filologia

Biondo, più giovane dei suoi quarantacinque anni, Chris Hogwood non corrisponde, con l'abbigliamento informale e la risata contagiosa, all'immagine stereotipa di un serioso docente di Cambridge. Oltre ad avere quella carica, è anche uno dei più preparati ed acuti musicologi che l'Inghilterra abbia prodotto nelle ultime generazioni. Non è, però, solo un teorico: la ricerca scientifica è per lui il supporto di esecuzioni. il più possibile aderenti alla volontà, allo stile e alla «maniera» degli autori. Quindi, uso di strumenti originali, continua ricerca e confronto sulle prassi esecutive, studio approfondito dei documenti d'epoca. Fondatore prima (con David Munrow) dell'Early Music Consort, poi dell'Academy of Ancient Music, che capeggia stabilmente e con cui è costantemente impegnato in concerti ed incisioni, Hogwood da qualche tempo si sta dedicando alle Sinfonie di Beethoven.
Nei rari casi in cui qualcuno si accosta alle pagine di Beethoven usando strumenti originali e prassi d'epoca, in genere non va al di là delle prime due o tre Sinfonie: è come se uno spartiacque limitasse di lì in poi l'interesse della ricerca. Anche lei ha intenzione di fermarsi?
No, spero invece che le incideremo tutte; abbiamo già fatto anche l'Eroica e mi sembra logico continuare. Abbiamo intenzione di alternarle con le Sinfonie di Schubert che possono servire in qualche modo da controllo, e le spiego perché. Si sa che Beethoven chiede sempre agli strumenti un po' più di quanto in realtà possano dare; ai suoi tempi si diceva che in lui la ricerca di effetti strumentali era eccessiva, e in realtà Beethoven è un autore difficile, che suona difficile. Per eseguirlo con gli strumenti originali occorre avvicinarglisi con un metodo preciso; per controllo, noi applichiamo quel metodo ad Haydn, che invece è sempre simpatico con gli strumenti, e se ci sono difficoltà di esecuzione capiamo che il metodo ha qualcosa di scorretto; altro controllo lo facciamo con Schubert, che viene immediatamente dopo Beethoven ed è anche lui simpatico con gli strumenti. Così si delimita il territorio per Beethoven, e si viene anche a sapere come superare questi confini per suonare quel pochino di troppo che per lui è necessario.
Ma c'è comunque un limite al discorso dello strumento originale?
No, non esiste: in astratto, questa è una filosofia che si può applicare a tutta la musica. Il problema è semmai pratico: non è facile trovare degli strumenti del diciannovesimo secolo, né dei musicisti che vogliano comprarli ed imparare a suonarli nel modo giusto per eseguire, che so, la Fantastica di Berlioz.
Ma le differenze per il repertorio più vicino a noi sono così sostanziali da giustificare un tale impegno?
Tutti gli strumenti cambiano con grande rapidità. Se lei parla con un clarinettista, ad esempio, le dice che il suo insegnante usava uno strumento molto diverso da quelli di oggi, con chiavi, tessiture differenti. Anche gli archi cambiano, e soprattutto è il modo di suonare che muta. Basta sentire una registrazione di prima della guerra: gli archi delle orchestre usavano molti portamenti e un vibrato molto stretto, mentre legni e ottoni erano completamente senza vibrato. Ora, invece, tutti gli strumenti in orchestra usano il vibrato, il flauto in particolare, mentre il solo che suona senza è il clarinetto: penso che i clarinettisti abbiano paura, altrimenti, di sembrare dei suonatori di sax.
Qual è, comunque, la ragione ultima di questa scelta di filosofia esecutiva?
Se non si rispetta esattamente quello che scriveva il compositore, se non si ricreano le condizioni in cui egli aveva ideato l'opera, si produce qualcosa di falso, qualcosa che nel progetto originale non esisteva. E' come aggiungere dei particolari a un quadro di Rembrandt o di Leonardo usando dei colori acrilici o fluorescenti, la stessa assurdità.
Anche l'interpretazione è soggetta a regole ferree o rimane un fatto personale?
E' sempre personale. Alcuni temono che se si applicano metodi scientifici all'esecuzione non rimanga spazio per la ricreazione individuale. Invece il problema con la musica è che ci sono troppe possibilità e bisogna limitarle. E' come scrivere un sonetto: bisogna rispettare delle regole ferree, ma se il sonetto come forma è così forte è proprio perché sta in limiti ben precisi. Con la musica, bisogna limitare le possibilità con la ricerca scientifica per fare più forti le idee personali, e si vede che i gruppi che fanno musica «autentica» danno dei Brandeburghesi, per fare un esempio, molte più interpretazioni differenti di tutte le orchestre sinfoniche che li suonano con strumenti moderni. Io penso che con un approccio musicologico si abbiano molte più possibilità d'interpretazione personale che con l'approccio tradizionale, che non rileva ad esempio tutte le differenze tra Bach, Haendel o Telemann: invece al diciottesimo secolo c'era molta sensibilità per le differenze, bisogna cercarle tutte.
Lei è un ottimo clavicembalista, ma le sue uscite pubbliche non sono quasi mai solistiche. C'entra col suo lavoro di ricerca questa predilezione per la musica d'insieme?
Sì: quello che amo nella musica d'insieme, nella musica «sociale», è non tanto il repertorio quanto il provare con gli altri e modificare le proprie idee. La mia formazione di studi umanistici a Cambridge, il fatto che insegno in quella stessa università, mi hanno dato il gusto e la necessità del dibattito, della disputa di idee; amo sempre discutere su come fare questo o quello, è una caratteristica un po' accademica, un po' gesuita.
Nell'interpretazione musicale c'è della schizofrenia, certo, perché occorre essere assolutamente definitivi nel presentare un'esecuzione al pubblico, molto convinti di ciò che si fa; nello stesso tempo, però, bisogna essere parecchio flessibili. Praticamente tutti i giorni si trova un testo antico che dice tutt'altra cosa rispetto a quello che si era sempre creduto, allora bisogna tener conto di questa nuova informazione ed essere pronti a cambiare tutte le proprie idee: la filosofia storicista ci insegna a fare così, e i dibattiti, le discussioni, sono utili per capire se si tratta di informazioni importanti o no. Procedere da soli su queste cose è molto difficile: si tende a diventare sempre più manieristi, di un manierismo personale che non amo affatto: ho visto che succede anche nella musica antica, a un certo punto c'è chi fa tutto allo stesso modo. Invece bisogna essere differenti per la musica italiana e quella francese, per quella scritta a Roma, a Mantova o a Firenze. Bisogna essere camaleonti, ma camaleonti con una grossa biblioteca, e cambiare è più facile quando c'è possibilità di discutere con altri musicisti allo stesso livello di preparazione e di cultura musicale. Anche in orchestra, sarà forse un po' anarchia, ma io spero sempre che dall'ultimo leggio dei violini arrivi una domanda, che qualcuno mi chieda: e perché dobbiamo fare così? Insomma, c'è molta gente che suona magnificamente in concerto da sola, ma io non amo quel tipo di vita: preferisco far musica in una piccola società con una filosofia comune, ma con idee molto differenti.

intervista di Patrizia Luppi (Musica Viva, Anno X n.6, giugno 1986)

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