Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, febbraio 01, 2006

Il grido di Mahler

Essere parte di una civiltà è avere in sè una tradizione di conoscenze ma anche di emozioni; la tradizione raccoglie accidenti storici, del tutto casuali, e li trasforma da storia in natura.
Assorbiamo ciò che è stato casuale, e lo facciamo diventare necessario, incarnato e connaturato in noi. Fu un caso che Goethe scrivesse il Faust, poichè avrebbe potuto non scriverlo, o che Dante scrivesse, la Commedia (un genio un po' più stanco e dotato di quotidiano buon senso non l'avrebbe fatto, per sfiducia), o che Mozart mettesse in musica il mito di Don Giovanni, o che Wagner componesse Tristan und Isolde e inventasse il Tristan-Akkord. Oggi ci domandiamo come potrebbe esistere la nostra civiltà senza la Commedia dantesca, senza il Faust goethiano, senza Don Giovanni e senza Tristan und Isolde.
Eppure, legioni di uomini intelligenti e colti, di altissimi spiriti, vissero con lucidità e chiarezza e pensarono pensieri sublimi (Platone, Boezio, Francesco d'Assisi, Eraclito, Hildegard von Bingen) senza possedere i tesori che abbiamo enumerato. E' uno dei misteri dell'essere, del rapporto tra l'esistente storico e l'eterno possibile, tra la potenza e l'atto.
Identica riflessione investe le dieci sinfonie di Gustav Mahler.
Prima che esse fossero ideate, coloro che amavano e facevano musica e di essa nutrivano la propria anima possedevano ricchezze a profusione: fra le recenti, Bach, Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Chopin, Berlioz, Verdi, Rossini, già lo stesso Wagner.... inutile continuare. E possedevano, come cibo o vaglio o bisturi dell'anima, Platone e Aristotele, Pascal e Kant, Goethe e Manzoni, Baudelaire e Shakespeare, Memlinc e Bosch, Michelangelo e Watteau, Carlyle e Nietzsche, Schopenhauer e Wagner, Leopardi e Balzac, la Bibbia e le Mille e una notte, l'Iliade e le fiabe di Grimm. Gli uomini, almeno quelli intelligenti e colti, non avrebbero saputo fare a meno di questo immenso lascito, divenuto sangue circolante e ossatura portante. Ciascuno di quegli uomini avrebbe detto che ogni casa bella e nobile nata in seguito era da considerarsi un'aggiunta, da attendersi con curiosità e con trepidazione, ma non questione di vita o di morte. Invece, la perdita di una sola ricchezza fra quelle acquisite prima sarebbe stata sentita come un'amputazione. Poi, il nuovo diventa antico. Oggi non sapremmo fare a meno delle sinfonie di Mahler, e amputazione dolorosa sarebbe la scomparsa nel nulla di una sola. Questi monumenti di scrittura orchestrale, tanto discussi, idolatrati e odiati, sono a loro volta divenuti parte del nostro modo di esistere.
Un anno e mezzo fa, su questa stessa pagina, abbiamo dato sommarie notizie su alcuni tratti che riguardano l'architettura delle sinfonie mahleriane: moventi, radici filosofiche e letterarie (immancabili, in Mahler), e ciò che il compositore aveva costruito sopra. Diversi gli stili di costruzione: il neogotico prevale nelle prime tre, dalla Quarta alla Settima si fa strada l'analogia con la tabula picta alla Grunewald o alla Bosch, l'Ottava è di nuovo un'architettura ideata in dimensioni gigantesche in cui si tenta di sostituire il gotico autentico al neogotico, la Nona e la Decima sono piuttosto architettura d'interni, dimore in stile floreale con barlumi espressionistici nei colori. Qui vogliamo invece suggerire le disposizioni d'animo adatte a chi si disponga all'ascolto come ad un percorso sul terreno.
In primo luogo, le sinfonie di Mahler sono musica altamente impura: ogni tema, ogni semplice motivo di due note, ogni suono isolato sono carichi di significati poetici, filosofici, persino sociali e irti di polemica. Eppure, l'deale di "musica assoluta" non soltanto non è smentito, ma è addirittura esaltato sino al parossismo.
Il grido (proprio il grido lacerante, alla Munch), il "Naturlaut" o voce di natura (stridii di uccelli, crolli apocalittici, campanacci di mandrie al pascolo sui monti) è assorbito dalla musica, diventa musica intonata e armonizzata; la sua funzione è simbolica, non descrittiva alla maniera della musica a programma e del poema sinfonico. Il "programma" letterario, che c'è sempre, è altrettanto sempre un "inneres Program", un programma interiore la cui sede è nell'anima che riflette il mondo, e il mondo è appunto sempre riflesso, pensiero piuttosto che Essere. In secondo luogo, la struttura formale di queste sinfonie, ora perfettamente (talora parodisticamente) tradizionale, secondo i modelli classico-romantici (i quattro tempi, il bitematismo della forma sonata, come accade soprattutto nella Quarta), ora provocatoriamente anomala e quasi intenzionata a indispettire i custodi della tradizione, non è mai cornice: è "essa stessa" la musica mahleriana, e non ha alcun senso (ripetiamo, non ha alcun senso!) pretendere per esempio di godere l'ascolto dell'Adagietto della Quinta (ma sì, quello utilizzato da Visconti per il film Morte a Venezia) se non si sa intimamente, ascoltando ogni nota, che la Quinta ha cinque tempi e non quattro, che il II è il "fratello-nemico" del I, e che dopo l'Adagietto il Finale comincerà con la citazione ironica di un Lied mahleriano che mette in berlina i critici musicali. Così, colui che fu considerato il grande destabilizzatore e quasi il distruttore della forma sinfonica è in realtà nella moderna musica d'Occidente uno dei massimi custodi delle ragioni formali.
Fra i più profondi indagatori delle sinfonie mahleriane, Paul Bekker nella sua potente e analitica monografia del 1920 insistette sul loro carattere architettonico; Theodor Adorno, nel vertiginoso saggio del 1960, mise a nudo la natura insieme narrativa e teatrale di esse, utilizzando come modello ermeneutico la coppia sipario-fanfara, ossia la dialettica tra una situazione cosmica, tanto dolorosa quanto perenne ("l'esistente") e l'irruzione di un evento. Che poi l'evento sia rappresentato da materia triviale, sgraziate fanfare da caserma appunto, deformati brandelli di marce militari, orchestrine da taverna, rientra nella poetica di Mahler per il quale nulla esiste che non possa diventare musica alta: il triviale si fa nobile poichè nobile è lo sforzo di farlo entrare nel contesto drammatico. Come Wagner, ha scritto Luigi Rognoni nel 1960, introdusse la sinfonia nel teatro, così Mahler introdusse il teatro nella sinfonia. Forse per questo un talento così palesemente teatrale come Mahler non realizzò mai un lavoro operistico: le sue sinfonie, interiorizzando il teatro d'opera, le rendevano implicito in sè. Che ogni sinfonia mahleriana sia un'altra tragedia recitata dall'orchestra, fu più volte dichiarato dallo stesso autore. Così la Prima è il dramma di un eroe che combatte e muore, la Seconda una rappresentazione del Giudizio Finale, la Terza un lucreziano conflitto tra uomo e natura, la Quarta un luttuoso paradiso sognato da anime infantili, la Quinta un itinerario nel deserto, la Sesta una tregenda infernale da Settimo Sigillo, la Settima un'allucinata scorribanda nella notte, l'Ottava un disperato tentativo di credere nel dogma cattolico (cui Mahler, israelita d'origine, "voleva" orientarsi per essere radicato nella cultura austro-tedesca), la Nona una rappresentazione del Nulla, l'incompiuta Decima una danza con il Diavolo, come suggeriscono le didascalie annotate da Mahler sulle pagine lasciate in abbozzo: misteriosi torsi di sculture ancora sepolte nella pietra.

di Quirino Principe (Il Sole 24 Ore, 17/09/1995)

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