Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, novembre 11, 2005

Firenze: "Disclub", un periodico per una bottega d'arte

Negli anni Sessanta una rivista fiorentina di grande interesse e spessore musicologico è stata Disclub, nata per volontà di Giorgio Venturi intorno all’omonimo negozio di dischi che allora aveva sede in Piazza San Marco. Il comitato di redazione era formato da Dallapiccola, Bucchi, Gianandrea Gavazzeni, Vlad e altri. Uscì dall’ottobre 1963 al dicembre 1969, con oltre trenta numeri dedicati alla musica di tutte le epoche, con speciale attenzione al Novecento, e anche con articoli sul jazz in ogni fascicolo. Dallapiccola apriva il primo numero con un articolo Incontro con Anton Webern, pagine di diario (chissà se poi un giorno verrà stampato un volume con tutti i suoi diari), che chiudeva con la dedica a Webern dei suoi Sex Carmina Alcaei che mai poté portargli a guerra finita. Va ricordato anche Valentino Bucchi, che nel 1974 si trovò per un breve periodo, prima della sua scomparsa, a dirigere il Conservatorio di Firenze. Bucchi era fiorentino e fu allievo di Dallapiccola, producendosi anche come critico di quotidiani, organizzatore, autore di colonne sonore ed altro, ma verso la fine degli anni Cinquanta abbandonò tutto e si concentrò sulla composizione con particolare attenzione al teatro. La sua opera più rappresentata rimane Il coccodrillo (1969-70).

Fra i musicisti è abbastanza diffuso, come si sa, il vezzo di apparire indifferenti alle recensioni: tutti o quasi fanno finta di non perdere il loro tempo a leggere quel che scrivono Courir e Zurletti, salvo poi ritagliare i loro articoli e, se positivi, allegarli alle domande di supplenza nei conservatori e perfino ai documenti per partecipare ad un concorso universitario. Ma non minore è il numero dei musicisti che teorizzano la loro indifferenza, e quasi una sorta di disprezzo, nei confronti dei dischi: salvo poi esserne accaniti acquirenti, alla stregua di quei "discoboli" (come li sentii chiamare una volta da D'Amico, e non mi meraviglierei se fosse lui ad avere il copyright del termine) che sanno tutto sulla durata delle esecuzioni di Tizio e di Caio e che conoscono età, indirizzo, abitudini e impegni futuri di quanti figurano nei cataloghi delle case discografiche. Di fatto, però, le cose sono molto più semplici: tutti si servono dei dischi, anche quelli che li comprano di nascosto. E non è un caso che perfino un Dallapiccola e un Gavazzeni, i quali probabilmente hanno sempre avuto scarsa dimestichezza con gli impianti di alta fedeltà, si siano lasciati coinvolgere in una delle più straordinarie e curiose imprese editoriali sorte a Firenze negli anni Sessanta, e proprio sotto la sigla esplicita di un negozio, quello di "Disclub" in piazza San Marco.
Certo, se c'è stato a Firenze un luogo di incontri, dove passare qualche po' di tempo a "ragionare" (che per i vecchi fiorentini significa conversare e discutere in compagnia), magari uscendo dall'università o dal vicino conservatorio, piazza San Marco non è stata meno importante del tante volte citato caffè delle Giubbe Rosse. Qui si incontravano, quando l'università era soltanto un istituto di studi superiori, Giannotto Bastianelli e Cecchi, di qui partivano le lunghe camminate in compagnia degli studenti di Giorgio Pasquali e De Robertis, e qui si incontravano, estranei agli ambienti accademici, Bargellini, Betocchi e La Pira. Ma qui si davano convegno, nella bottega di "Disclub ", a partire dal 1963, un gruppetto di musicisti e di studiosi di età ed estrazione culturale quanto mai diverse. Quelli che abitavano a Firenze andavano a "Disclub" più spesso nel tardo pomeriggio, a fine giornata, per "ragionare" sui concerti e sulle opere ascoltate nei giorni precedenti; e si parlava ovviamente anche di dischi, ma non soltanto di questi, che semmai potevano essere un'occasione per discutere sui problemi del mondo musicale. Finché nell'ottobre del 1963, con uno dei gestori del negozio anche in veste di editore (Giorgio Venturi), uscì la più singolare rivista musicale del dopoguerra, e forse l'ultima rivista autenticamente "fiorentina", almeno nell'intraprendenza e nella vivacità che la caratterizzò fino al suo ultimo numero, nell'aprile del 1969. Si chiamò ovviamente Disclub, fu all'inizio speranzosamente mensile, "di critica musicale ed informazione discografica" (com'era scritto sotto la testata) ed ebbe un comitato di direzione che oggi quasi stupisce per l'importanza di alcuni personaggi, essendo costituito da Valentino Bucchi, Luigi Dallapiccola, Gianandrea Gavazzeni, Francis Torne, Roman Vlad e Martin Williams. E c'erano addirittura due comitati di redazione, uno per la "musica classica" con Luciano Alberti, Attilio Baldi, Giulio de Angelis, Mario Sperenzi e Henry Weinberg, e un altro per "jazz e folclore", con Franco Cascella, Carlo Alberto Elia, Francesco Forti e Francesco Maino.
Il progetto era certamente ambizioso, ma oggi appare un indizio perfino emozionante di un momento della cultura musicale italiana prima del fatidico '68; perché basta scorrere i primi numeri di Disclub (la collezione completa è diventata una rarità bibliografica, e lo sarà ancor più d'ora in poi, visto che il vecchio negozio ha cambiato proprietà e ha cessato di essere il punto d'incontro di un tempo, quando aveva fra i suoi clienti il giovane Muti, appena arrivato a Firenze) per restar colpiti dall'importanza e dalla vivacità polemica dei contributi, che spesso erano le prove di studiosi e critici all'inizio dell'attività. Ecco così nel primo numero le pagine di diario di Dallapiccola relative ai suoi rapporti con Webern, uno studio su Alessandro Scarlatti del giovane musicologo (purtroppo precocemente scomparso) Mario Fabbri, una intervista a Gavazzeni di Luciano Alberti, che era il critico musicale del Giornale del mattino, altro giornale fiorentino ora scomparso, e prendendo spunto da una pubblicazione discografica un saggio di Domenico Borra sulla musica alla corte di Borgogna, che è già il sintomo di un interesse per la riscoperta di antiche prassi esecutive, più tardi diventate di moda. Ma nei numeri sucessivi, che per qualche tempo uscirono con regolare cadenza mensile, ecco gli articoli di Massimo Mila sull'ultimo Verdi e sui Quattro pezzi sacri ("No. Non si serve la causa di Verdi - scriveva - con l'ingenua pretesa che le sue opere siano tutti capolavori") un profilo di Georg Solti, allora direttore artistico del Covent Garden, e uno studio sul Fidelio di Gianfranco Zaccaro esordiente accanto a quello di Federico Ghiso sulle Sacre Istorie e sugli oratori di Giacomo Carissimi. Senza contare tutte le indicazioni di costume che si traggono, oggi, dallo stesso materiale pubblicitario, dove già si avverte, ad esempio, la crescita di interesse per le esecuzioni delle Sinfonie di Mahler e il primo consumistico diffondersi delle incisioni dedicate a Vivaldi e ai compositori italiani del Sei e del Settecento.
Fu però fra la fine del 1964 e la primavera del 1965 che Disclub ospitò una polemica di singolare violenza, che aveva avuto come punto di partenza un articolo di Umberto Santucci sul jazz, nel quale si esprimeva disappunto per la posizione di Adorno, che aveva messo sullo stesso piano la musica leggera e il jazz. Si trattava in realtà di una rispettosa riserva sull'atteggiamento del celebre filosofo, sul quale si cominciava già a favoleggiare negli ambienti più "impegnati" italiani; ma nulla sarebbe probabilmente accaduto se non fosse intervenuto Mila che, riprendendo l'osservazione di Santucci, scagliò contro Adorno giudizi di eccezionale violenza, quasi si fosse sciolto in lui il groppo di un fastidio lungamente represso. "L'errore principale di Adorno - scrisse Mila - è il suo deleterio atteggiamento d'incomprensione e d'altezzoso disprezzo verso il mondo in cui vive, ìn nome di chissà quale sognata perfezione d'una razza eletta di superuomini". Lo chiamò "Junker intellettuale" e ironizzò sul fatto che egli si fosse "costruito un soglio pontificio", lasciando capire che di Papi già era più che sufficiente ce ne fosse uno, legittimo, e che un secondo era di troppo. Senonché, nel numero di aprile-maggìo 1965, che oggi appare davvero un fascicolo prezioso, tutto dedicato all'argomento, intervennne in risposta a Mila il giovane Mario Bortolotto e, con una violenza insolita (e sorprendente anche per quanti ne conoscevano la vivacità polemica), Fedele d'Amico: Osservazioni su un apocrifo è il titolo del suo articolo, nel quale si diverte ad immaginare che quanto era apparso su Disclub a firma di Mila fosse, appunto, un apocrifo ("ho dubitato di un refuso nella firma. Si sarà trattato dì Massimo Mela?", scrisse).
In sostanza D'Amico faceva una questione di metodo, rimproverando Mila di aver confuso la sociologia di cui si occupava Adorno con l'arte, che di per sé era estranea agli interessi del filosofo tedesco. Ma il tono della replica era violentissimo, al punto che Mila veniva accusato perfino di non essere un buono scrittore, ed etichettato con l'appellativo di "compositore di recitativi secchi". La risposta di Bortolotto, al confronto, sembra oggi una pacata e compiaciuta divagazione culturale e lo stesso Mila, replicando nello stesso numero ai suoi dirimpettai, riconosce al giovane studioso un tono civile nell'essersi limitato in sostanza ad una dichiarazione di affetto ("Adorno è per me - scrive Bortolotto - un maestro e un amico"). Il duello, insomma, passando sulla testa di Bortolotto, è fra D'Amico e Mila, e questi non si fa certo intimorire dalle frecciate del suo amico, che gli chiama "difensore d'ufficio" di Adorno: "L'asprezza della replica di D'Amico mi riesce tanto più sorprendente - scrive - in quanto D'Amico non crede nelle idee di Adorno più di quanto ci creda io", e gli comunica, maliziosamente, che l'aver bollato il filosofo tedesco con l'appellativo di "Junker intellettuale" gli aveva almeno valso il telegramma di adesione "di un grande musicista" (chi sarà stato? Dallapiccola? Petrassi? Malipiero?). Quanto all'accusa di non saper scrivere in un bell'italiano, Mila sembra non adontarsi: "D'accordo, io penso e scrivo alla buona, come un contadino". Ma anche lui ha le sue frecce avvelenate, quando conclude la sua replica con queste parole, dirette non più a D'Amico ma proprio ad Adorno: "A giudicare da quanto si vede, non pare che l'odio per il mondo com'è abbia mai spinto qualcuno a muovere un dito per modificarlo. Sembra piuttosto un ottimo pretesto per continuare a fare pacifica professione di marxismo per conto e a spese d'Università americane e della Germania federale". I "gauchistes" erano così serviti, e proprio da uno che non poteva essere davvero accusato di essere di destra. Ma Disclub, intanto, cominciava ad allentare la sua originaria tempestività, uscendo in modo sempre più saltuario: nel numero di giugno-luglio 1965 apparve un "incontro con Pierre Boulez" di Martine Cadieu, Dallapiccola scrisse nel fascicolo del marzo-aprile 1966 alcuni suoi interessantissimi commenti sui dischi di Egon Petri, il n.22-23 della fine del 1966 uscì monografico su Busoni. Ma alla fine del 1967 il comitato di direzione si sciolse e Cesare Orselli fu nominato redattore capo, disponendo tuttavia del vecchio comitato di redazione: apparvero infatti ancora scritti importanti di Vlad su Lulu di Berg, di Bucchi sull'Orfeo di Monterverdi e nell'ultimo numero ufficiale, il 29° (il 30-31 "unofficial" porta la data maggio-dicembre 1969), che è dell'aprile 1969, uscirono ancora articoli di Rattalino, Zaccaro, Nicastro, Lanza Tomasi e Giampiero Cane. Poi il silenzio, e oggi più che mai, col ritiro dall'attività dei gestori di Disclub, la sensazione di un mondo tramontato e la malinconia di constatare la sparizione di un ultimo pezzo della Firenze novecentesca, quella dove si sentivano di casa il bergamasco Gavazzeni e il cìttadino del mondo Vlad, il torinese Mila e il napoletano Muti, il romano Gui e l'indiano Zubin Melita, a cui Disclub dedicò una copertina nel 1968, quando aveva appena trentadue anni.
Leonardo Pinzauti
("Musica Viva", Anno XIII n.7, luglio 1989)

Nessun commento: