Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, marzo 11, 2024

Bruno Walter & Anton Bruckner

Bruno Walter (1876-1962)
Riflessioni intorno a un disco di Bruno Walter.

Su Bruno Walter si sono dette e scritte tante cose, sicché i fatti inediti sono ormai retaggio di private memorie, di ricordi personali. Quando egli venne informato della esistenza in Italia di una iniziativa a favore di Bruckner, non esitò a rallegrarsene e a incoraggiarci con equilibrate parole, non dettate dalla circostanza, bensì da un'affettuosa partecipazione che non si fermò nell'ambito di una singola lettera, ma si diffuse con tono sempre cordiale in un epistolario che tengo molto caro, segnato alla fine di ogni anno dal puntuale scambio degli auguri rituali. Egli aveva già fatto molto per Bruckner, noi eravamo agli inizi. Nell'opera comune di diffusione della musica del maestro austriaco, egli s'imponeva con la pacata autorità della sua arte e del suo umanesimo, noi con le armi affilate della persuasione e dell'insistenza. Era sufficiente che uscisse un disco da lui inciso per imporre l'attenzione e proporre conversioni. Si sentiva dire anche dai più retrivi che se Walter dirige Bruckner quest'ultimo è degno di essere ascoltato.
Bruno Walter come del resto Furtwaengler e Hindemith suoi conterranei, arrivò tardi a Bruckner, come egli stesso confessò. Fu in seguito ad una malattia. La forzata immobilità, il raccoglimento indisturbato in se stesso lo ricondussero a quel musicista che, sì, conosceva, ma che gli era stato quasi sempre estraneo. E fu allora che "il velo si apri davanti ai suoi occhi" per usare le sue stesse parole. Da allora Walter non perse mai occasione per farlo conoscere e lo dichiarò anche pubblicamente, confermando nei suoi scritti la sua totale adesione al messaggio spirituale del maestro austriaco. Si può dire che negli Stati Uniti, Walter fu il primo ad eseguire Bruckner in modo sistematico. Forse il suo amore per questo musicista non fu soltanto la risultante di un ripensamento o di una revisione delle proprie idee proposta da una maturità raggiunta e superata. Le radici dovevano essere ben più profonde. Egli era stato discepolo e amico di Gustav Mahler e da questi assorbì quella sensibilità e quel gusto che dominavano il mondo musicale viennese nel quale Bruckner rappresentava l'anello di congiunzione tra tardo Ottocento e Mahler, che dello stesso Bruckner fu allievo, amico ed interprete. Per questo il messaggio bruckneriano filtrò in Bruno Walter mediato da Mahler, manifestandosi come illuminazione improvvisa, ma a distanza di tempo poiché inconsciamente germinava in lui. Tuttavia Bruno Walter seppe scindere esattamente i valori dei due musicisti a lui cari, i quali, per certi aspetti, erano radicalmente dissimili, per non dire addirittura opposti, sebbene gl'influssi che Bruckner esercitò sul boemo siano chiaramente palesi e possano ricondursi ad una visione mistica del mondo comune ad entrambi, ma risolta in modi differenti se prescindiamo per un attimo dalla mancanza di una cultura specifica in Bruckner e dall'eccesso di essa in Mahler.
Bruno Walter seppe fare di Bruckner e di Mahler due creazioni distinte, due mondi differenti, proiettando in ciascuno di essi una luce unica e di eguale intensità, guidato in ciò dalla sua straordinaria saggezza umanistica. Nelle sue mani Bruckner diventava più vero senza modificarsi. Egli nulla aggiungeva o toglieva. Egli lo restituiva sempre nuovo, ma intatto. E per questo le sue interpretazioni facevano testo. Egli si poneva di fronte alla musica con tutta umiltà, come un sacerdote che officia un rito, conscio e quasi sopraffatto dalla importanza della mediazione che egli rappresentava tra il testo scritto e la sua realizzazione sonora. La cura che egli poneva nei dettagli non gli faceva perdere di vista la concezione unitaria di tutta l'opera. i dettagli non erano frammenti, ma luce che vivificava l'opera, l'alone complessivo. E nelle sue mani le sinfonie di Bruckner diventano quelle che in realtà erano: grandi templi lirici, poemi epici. Ove gli altri incespicavano, egli camminava sicuro, con passo leggero, cantando. Tutto diventava naturale sotto la sua bacchetta, anche i passaggi più difficili.
Le sue interpretazioni del Te Deum e della Quarta Sinfonia, mi avevano spronato a richiedergli una esecuzione definitiva della Settima che, allora, consideravamo un po' come il nostro pane quotidiano, la sinfonia che i critici concordemente giudicavano più equilibrata. Non che le altre non lo fossero, ma nella Settima tale equilibrio risultava più evidente e faceva presa sul pubblico più impreparato senza richiedergli sforzi soverchi. Questa sinfonia fu anche oggetto di un nostro studio (1) che fu ampiamente diffuso in virtù della popolarità che quest'opera si era guadagnata in Italia grazie ad un film per il  quale era stata scelta a commento sonoro dietro suggerimento di Suso Cecchi d'Amico (2). Verso la fine del 1960, nell'inviare a Bruno Walter copia del nostro volumetto, scrissi chiedendo la sua autorizzazione a tradurre un suo libro su Mahler, nonché una prefazione per una nostra pubblicazione, prefazione che egli stese nell'estate successiva e di cui lesse la traduzione, approvandola. in calce alla mia lettera aggiunsi un audace post-scriptum con cui esortavo il maestro a curare la registrazione della Settima Sinfonia di Bruckner. Pur sapendo che Bruno Walter aveva la più ampia facoltà di scelta del repertorio da incidere per la Columbia, non è che mi facessi soverchie illusioni nel proporgli la registrazione della Settima. Non ignoravo che Walter si era da tempo ritirato dal podio per ordine del medico e si dedicava alle registrazioni con una certa cautela per non affaticarsi, data l'età e i disturbi che lo affliggevano. Nonostante questo, la risposta non si fece attendere: essa è datata 23 Dicembre 1960 e conclude con queste precise parole: "Sto leggendo con interesse la vostra guida alla Settima Sinfonia di Bruckner. Registrerò questo lavoro nei prossimi mesi. Cordiali saluti a lei e a tutti gli amici dell'associazione e Buon Anno a tutti. Sinceramente suo, Bruno Walter".
Il mio primo impulso sarebbe stato di scrivergli subito non solo per ringraziarlo, ma anche per segnalargli talune incongruenze alle quali gl'interpreti di questa Sinfonia si lasciavano andare soprattutto nel Trio dello Scherzo, privandolo, con l'adozione di tempi affrettati, della sua cantabilità e dello straordinario giuoco di luci ed ombre, di aperture e chiusure. Avrei voluto scrivergli: "Per favore, Dr. Walter," "lo faccia lento quel Trio!". Ma come si fa ad insegnare il mestiere a chi lo conosce fin troppo bene? La mia era la stessa presunzione coraggiosa del pulcino che passeggia sul dorso del leone.
Ora Walter non c'è più, ma ci ha lasciati con una promessa mantenuta: i dischi della Settima Sinfonia che ancora una volta perpetuano la sua memoria e i suoi insegnamenti. A questo punto nessuno si sorprenderà se io, succube della mia curiosità generata da premesse non realizzate, ha iniziato l'ascolto di questa registrazione dal Trio e non dal primo movimento. Ed eccolo uscir fuori lento, anzi, lentissimo! Ecco le cinque battute introduttive del timpano che scandisce un ritmo tutto beethoveniano (semiminima - semicroma - semiminima) derivato dal tema dello Scherzo enunciato dalla tromba. Infatti quel ritmo altro non è che la terza battuta di quel tema. Poi la melodia in 10 battute esposta dagli archi in un lirico cantabile (Bruckner ha segnato «gesangvoll»). Non è senza commozione che ho potuto constatare ancora una volta la grande intuizione interpretativa di Bruno Walter che ha fatto di questa sinfonia un grande tempio lirico di cui si diceva poc'anzi. E che dire del resto? Basta ascoltare le prime battute del primo tempo (allegro moderato) e il tema ascendente esposto dal corno e dai violoncelli all'unisono col sottofondo discreto del tremolo degli archi, per avere già un'idea chiarissima di ciò che dovrà venire dopo, di ciò che Bruckner e Bruno Walter ci riservano. Anche l'Adagio (molto solenne e molto lento) scritto nella previsione della morte di Wagner si colloca su uno stesso livello dinamico. Walter ha voluto collegare i due movimenti in una sola proiezione unitaria, giacché il primo reca già un'anticipazione del clima introverso e contemplativo del secondo (lettera I a lettera L). ln quest'ultimo affiorano gemme nascoste, come se la  bacchetta di Walter fosse quella di un prestigiatore. Chi ha mai avvertito lo sfregamento di un «si» un po' assassino enunciato solo dai violini primi alla ripresa del primo tema (lettera G)? Produce un effetto dissonante che gli altri probabilmente hanno cercato di nascondere, eppure Walter lo tira fuori e lo valorizza. E il giuoco secondario dei violoncelli e delle viole, riempimenti quasi impercettibili del canto che riposa su una nota un po' più lunga? Tutto è chiaro, solare.
Lo Scherzo e il Finale inaugurano la seconda parte della Sinfonia, visto che i primi due movimenti sono trattati da Bruno Walter come una sola entità. Il ritmo incalzante dello Scherzo punteggiato dal famoso tema della tromba da taluni autori paragonato al canto del gallo, sembra scacciare definitivamente le malinconie della Trauermusik del precedente Adagio, mentre il Finale (Mosso, ma non presto) è una proposta di semplicità. Strano a dirsi, in questo movimento Bruckner abbandona la forma tritematica a lui cara, puntando sul tema principale che, come nel primo tempo, viene introdotto e sostenuto da un lungo pedale in tremolo. La notevole concentrazione del contenuto musicale trova solo momenti di stasi nelle proposizioni corali realizzate perloppiù dagli ottoni. Anche qui Bruno Walter ha saputo equilibrare magnificamente le varie compagini strumentali, ottenendo un suono rotondo e corposo, oltre ad essere perfettamente intonato.
Non si è detto nulla della storia di questa sinfonia, storia lunga e penosa. Anche qui si potrebbero richiamare gli intrallazzí di Brahms e di Hanslick i quali giunsero persino ad ideare una pubblica protesta allo scopo d'impedire che la sinfonia venisse eseguita in Vienna. Sì, perché il grande successo di questo lavoro arrise a Bruckner in terra straniera ad opera di Arthur Nikisch (che era stato suo allievo a Vienna) che la eseguì per la prima volta a Lipsia nel Dicembre del 1884 ad un anno di distanza dal suo definitivo completamento. Alla storia e al destino di questa opera abbiamo già dedicato uno studio specifico al quale, forse un po' immodestamente, vorrei rinviare il lettore che desideri approfondire l'argomento. In questa sede ho preferito trattare soprattutto il lato interpretativo e la grandezza dell'interprete. Vorrei aggiungere che questi due dischi tecnicamente non sono da meno. Giusto equilibrio dinamico, giusta riverberazione dell'ambiente. Nella versione stereofonica, la sinfonia guadagna ancora di più, grazie all'allargamento del fronte sonoro che conferisce al lavoro un maggior senso di spazialità. Si tratta di una esecuzione difficilmente superabile. Grazie, Bruno Walter.
Edward D. R. Neill
("Disclub" 9, anno II, luglio 1964)
(1) «Guida alla Settima Sinfonia» Genova, 1960.
(2) «Senso» di Luchino Visconti.

venerdì, marzo 01, 2024

Adrian Leverkühn e Arnold Schönberg

Arnold Schönberg (1874-1951)
Tutti sono d'accordo nel ritenere irreperi
bile (anzi, inesistente) la vera identità di Adrian Leverkühn, protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann: cercare, tuttavia, di affiancarlo idealmente al musicista cui, per varii motivi, la stesura «musicale» del romanzo dovette di più [Arnold Schönberg), potrà servire egregiamente da stimolo: a) per cercare di chiarificare alcuni aspetti culturali del medesimo Schönberg; b) per individuare la possibilità di sopravvivenza di quella parte della cultura tedesca che cercò di continuare a esistere al di qua del gesto di definitiva rottura operato dagli espressionisti; che cercò di sviluppare, rendendolo «mondiale», il filo del germanesimo bruciatosi nell'orgia infernale di cui il nazismo rappresentò la «logica» fase finale: parte della cultura tedesca personificata, va da sé, da Thomas Mann.
Schönberg proviene dalla linea Wagner-Strauss, che ha vissuto intensamente, che ha accolto come sostrato, nella quale si è gettato aggiungendo, con le sue opere giovanili - Notte trasfigurata, Gurrelieder, Pélleas, ecc. -, ancora un mattone al tremendo edificio costruito dalla precedente cultura musicale: Tamino, Max, Florestano, Sigfrido, Parsifal: «eroi ascendenti» e formanti, attraverso un'aspra dialettica, un edificio armonico che, benevolmente ed esemplarmente autonomo in Bruckner, avrebbe generato, successivamente, una terribile e autosufficiente consapevolezza del tutto priva di quella forza auto-negatoria che, unica, le avrebbe impedito di cadere nel superomismo elevato a regola di vita, nel nazismo. Schönberg visse tutto questo. Anche lui, arrampicato sulla maculata piattaforma di un'armonia che si fa già risolta visione del mondo, aveva iniziato a costruire il suo edificio pangermanico, anche lui era un orgoglioso figlio del suo secolo, della sua cultura.
Adrian studia teologia. Il suo avvicinamento a una disciplina così - thomasmannianamente, diciamo - ambigua, è il primo atto dello sfacelo finale, è lo scorgere, chiarissimi, i limiti del tutto; è uno sfidare i potenziali residui di una visione trascendente minata; è il dimostrare, attraverso la distruggente ironia, che l'uomo cosciente venuto dopo il romanticismo, sa tutto, vede tutto, non può mettersi in marcia perché, affrontare un iter dialettico avendo già chiare le successive fasi, significa fare opera inutile. Adrian, attraverso l'op. 111 di Beethoven, ha toccato col dito il fondo delle cose della cultura, ha scorto, nella sublime disgregazione sonatistica del grande musicista, un atto di resa di un mondo che, ormai discoperto, avrebbe potuto dare, in seguito, solo soddisfazioni parziali, solo palliativi «estetici»: belli, stupendi, ma, a confronto dell'immane problematica uomo-universo, glissanti, mistificatorii.
Il contatto, mediato dalla fondamentale figura di Mahler, fra Schönberg e l'espressionismo, rappresenta il tragico punto di rottura del superomismo ascendente del musicista. Coartato in una stretta dialettica che spostava la visione di quel mondo all'esterno, che aboliva, cioè, le leggi univoche dell'eroe post-Wagneriano, la poetica del primo Schönberg si affloscia come un pallone. È sufficiente considerare realisticamente la rappresentatività sociale di quella musica, e la sua statica essenza al di qua di ogni divenire dialettico, per generare, nel musicista, un secco rifiuto. Non è argomento di questo scritto il vagliare analiticamente tutte le componenti dell'espressionismo schönberghiano: preme soltanto mettere l'accento sull'ipersaturazione culturale del musicista, maturata a contatto con determinate esperienze, sofferta e non sviluppata come retaggio di un'educazione precocemente consumata sull'arco di una visione la cui totalità è potenzialmente antica, potenzialmente consumabile sulla cresta del risultato di qualsiasi grande impennata di un singolo nella storia dell'umanità [si pensi solo a un problema simile - simile a quello di Thomas Mann - impostato, da Hermann Broch, sulla figura del poeta romano Virgilio Marone: La morte di Virgilio). Cosa questa che s'è visto, toccò ad Adrian con Beethoven.
L'iter umanistico di Thomas Mann non passò mai - è noto - attraverso l'espressionismo. Giunse, però, a una fase cruciale in cui il recupero dell'«uomo», attraverso la vigile e rinnovata presenza di se stesso e in se stesso, si presentava non già impossibile, ma pericolosa e proclive a precipitare nello aberrante monolita nazista. Leverkühn è lontano da questi estremi non già perché li riconosce come sintomo di una cultura fattasi pericoloso e ambiguo patrimonio comune, ma per innato distacco dal popolare. Se la musica successiva all'op. 111 di Beethoven altro non era stato che un riempimento di piccoli e inessenziali vuoti lasciati scoperti dall'autore del Fidelio, un riempimento che aveva generato e confermato la cultura di una nazione, come avrebbe potuto interessare la posizione di chi si opponeva al facile e previsto decorso di tale andamento produttivo, di chi individuava, in una cultura estesa a tutti, la piattaforma dalla quale si sarebbe levato il bestiale atto di padronanza del mondo, e che, intanto, confermava l'avvilimento del progresso del singolo: la posizione, insomma, dell'espressionista?
Sapere dell'essenziale vacuità di tutti i prodotti successivi all'op.111, ma, al tempo stesso, studiarli, far convivere la forza naturale per l'indagine e per l'assimilazione, col perenne e diabolico sorriso dell'ironia superatrice  Leverkühn, al momento del suo esordio produttivo, è già estenuato: i suoi lavori, sia pur «belli», sono, come vedremo, un atto di sfiducia nella società: non già per protesta, ma per costituzionale incapacità di credere.
È ipotesi coraggiosa, ma affatto accettabile, quella che considera la fase espressionistica schönberghiana (e anche berghiana e weberniana) un momento di rottura e di incandescente presenza immediata nel mondo, determinato dal desiderio di reincanalarsi nel filone più profondo della cultura idealistico-borghese, di quella cultura di cui, una volta soddisfatte tutte le impellenze etiche circa la conquista di una posizione nell'universo, il momento più vero era quello del cantare, del costruire, del rivendicare, con un fare eroicamente dialettico, l'umanità del soggetto, la sua positiva dignità, la sua posizione centrale nel cosmo. E Schönberg negando, nel suo momento espressionistico, la visione del mondo di quella borghesia, della borghesia del suo tempo, si era reincanalato in un'astrazione di essa, in una sua promanazione che, aboliti i vincoli spazio-temporali (il linguaggio come discendenza fruibile da parte di quel pubblico; il suo trasferimento in America], ricostruiva i proprii presupposti di umana dignità con dei metri nuovi non solo per la loro essenza grammaticale (dodecafonia), ma per la diversa - e nettamente, necessariamente ed eroicamente nuova - posizione di consumo che implicavano. Sempre, ripetiamo, al fine di recuperare l'attenzione, la facoltà intellettuale, creativa e ricettiva, dell'uomo.
Adrian, partendo dal medesimo presupposto di consumo, dalla medesima difficile (e contro natura, data l'essenza, di allora, della «natura») fruibilità dei metri dodecafonici, a essi si ancora. Pare appassionarsi alla cosa, pare perdere la sua eterna ironia, pare avere superato costruttivamente il momento negativo in cui la musica si era ridotta a mero «calore vaccino». Ma ecco il demonismo creatore arrestarsi al momento negatorio, ecco il suo sforzo creativo assumere, sempre più nettamente, sotto gli occhi atterriti dell'amico Zeitblom, le caratteristiche della negazione cosmica, ecco, di nuovo, la tremenda ironia emergere: e, stavolta, definitivamente acquietata. Il suo prodotto nega i vincoli semantici con la società: è un atto di «demonismo negatore» che procede, in un terreno reso scivoloso dal decadere dello «spirito» hegeliano al rango di materia «dolciastra» e capace solo di generare tronfi atti superomistici, con le stesse armi dell'irrazionalismo romantico: reso, un tempo, possibile dalla disponibilità del pubblico, dalla sua verginità. Un irrazionalismo che scansa, per innata boria, l'unica possibile strada, e cioè quella della pacata ponderatezza thomasmanniana. quella dell'amore, quella del silenzioso recupero del materiale umano salvabile, potenzialmente, dal decadere dell'hegelismo al rango di superpotenza d'origine nietzscheana. Un irrazionalismo, invece, che procede nella sua strada fondamentale serbando mostruosamente chiari i suoi presupposti d'azione e riservando la forza del demonio per l'imposizione della sua posizione, dei suoi contenuti, dei suoi insanabili contrasti con la mentailtà del momento.
Mentre Schönberg enuncia una nuova fase limpidamente creativa, si resta inorriditi dinanzi a ciò che ha compiuto Adrian: dinanzi a questa sua negazione dei vincoli che uniscono l'uomo all'altro uomo, dinanzi alla sua visione retroattiva della fine della società, dinanzi alla sua demitizzazione dell'umanità.
Se si pensa alle componenti schopenhaueriane (il mondo può giustificarsi esteticamente) e a quelle kantiano-hegeliane (posta la razionalità del cosmo, l'uomo la deve cantare: quindi, attraverso la sua opera, ricostruire eticamente) interagenti nella formazione di Thomas Mann, si comprenderà bene l'immensa portata mostruosamente negativa del «suo» Adrian: demistificatore dell'«incanto» estetico e, quindi, vanificatore del necessario iter etico che, agli inizi del '900, abbiamo visto necessariamente caratterizzato da una sorta di silenzioso e faticoso «contegno» umanistico.
E proprio là dove - come ci siamo sforzati di dimostrare, sia pure a grandi linee - la figura di Schönberg si differenzia nettamente da quella dell'infelice Leverkühn, possono generarsi dei contatti di grande momento. Va da se che il discorso non isola le figure del musicista vero e del musicista immaginario nella loro realtà totale, ma tende ad allacciarle al loro ambiente, a confonderle, persino, con delle loro negatività più o meno potenziali. Così Leverkühn è anche Zeitblom, anzi, addirittura, ora, Thomas Mann: in base a quel rapporto creatore-creatura che rende questa - al pari della figura d'artista «sano» vagheggiata da Nietzsche: e ben lungi dall'esaurirsi nel buon Bizet! - un prodotto tutt'altro che vivente e agente di per sé; così Schönberg, sia pure in base a ben altre considerazioni più o meno alla sua portata, è il futuro, un futuro che Thomas Mann vide e che noi, oggi, conosciamo ancor meglio.
Punti di contatto, a dispetto dell'azione meravigliosamente umanistica di Schönberg, e di quella diabolicamente disgregatrice di Leverkühn; punti di contatto che, proseguendo idealmente la «storia» del Doctor Faustus, evidenziano Serenus Zeitblom dinanzi al suo Adrian e ai successori di Schönberg: dinanzi alla consapevole e ormai statica negazione di quello e alla dialettica di questi: a una dialettica che, smarriti i presupposti di comunitarietà tipici della civiltà europea e di quella tedesca in particolare, prendono, da Schönberg e da Adrian (ora uniti), i moduli di una vivisezione linguistica, li sviluppano senza il conforto della comunicazione, e proseguono sentendo sempre più debolmente l'impellenza del costruire, e subendo sempre più fortemente l'ansia dello scavalcare. E, tutti, partendo dal rifiuto del «calore vaccino» della musica. Non solo, ma ormai privi della coscienza umanistica di Zeitblom; rimasto, al di qua dell'agone arte-vita, a far da spettatore, a versare inutili e forse malintese lacrime, ad approfondire il baratro esistente fra quelli che capiscono piangendo, quelli che non capiscono, e quelli che hanno ormai  secchi gli occhi.
Thoman Mann, grande umanista, negò - s'è detto - L'espressionismo nel senso che non diede seguito personale all'azione di protesta deformatrice del linguaggio tipica non solo degli espressionisti storici, ma anche, se intesa come processo di reazione all'alienazione borghese del linguaggio, di tutta l'avanguardia successiva. Trovo in sé, Thomas Mann, le forze adatte a reagire al mondo, facendo appello a un determinato patrimonio. E non sono assenti le conseguenze creative di tale sua mancanza di contatti con l'espressionismo. L'ultimo suo lavoro - il Felix Krull - «risponde», in un certo qual modo, ai problemi del Doctor Faustus additando una possibile nuova civiltà: non da crearsi, ma da cogliersi disponendo se stessi nella condizione più adatta a rigenerare il «racconto», l'«idillio», la «commedia». America e Unione Sovietica: una polivocità sostenuta da un grande e prontissimo entusiasmo sul punto di affrancarsi definitivamente dalla tabe europea: oppure Zdanov, vagheggiato (ma non so fino a che punto) in quell'enorme «centro-sinistra» mondiale che lo stesso scrittore accennò in altra sede.
È questo, forse, il motivo per cui Thomas Mann consumata, potenzialmente, in Leverkühn, tutta la tragedia dell'arte moderna, anche la figura - singolarmente ottimistica - di Schönberg viene ad assumere un rilievo parimenti negativo. La «scuola», anche intesa come scambio di direttive etiche, la sua scuola avrebbe portato all'avanguardia di oggi, cioè alla messa in discussione della totalità europea.
È questo, forse, il motivo per cui Thomas Mann non riconobbe in Schönberg quel "salvatore" che - ripeto: singolarmente - era; questo il motivo per cui la sua figura, costituzionalmente tanto lontana da quella di Adrian, le si appaia nelle logiche continuazioni che ogni individuo responsabile è obbligato a fare.
Gianfranco Zàccaro
("Disclub 11, anno II, ottobre-novembre 1964)

martedì, febbraio 20, 2024

La IX di Mahler diretta da Solti

Di quello che per giudizio comune e con frase un po' scontata viene definito il "testamento spirituale" di Gustav Mahler, della
Nona sinfonia, cioè, son già reperibili sulla piazza discografica almeno due registrazioni che, in quanto a livello esecutivo, non temono confronto alcuno: ci riferiamo ai dischi di Bruno Walter e di Jascha Horenstein, da anni in commercio. Se vogliano, per onestà, escludere da ogni giudizio preventivo la recente incisione di Kubelik (che non conosciamo), poco ci resta che possa essere contrapposto a quelle due fondamentali letture. Poco, ma in questo "poco" occorre far rientrare la performance di George Solti, di cui qui ci occupiamo e che va giudicata, nonostante i suoi limiti, come uno dei più interessanti fatti dell'interpretazione discografica mahleriana di questi ultimi anni.
Segnalatosi frequentemente tra i più autorevoli direttori wagneriani e straussiani del nostro tempo, Solti non aveva, fin qui, dimostrato particolare propensione alla poetica mahleriana, che, del resto, nelle sue mani doveva per forza di cose stravolgersi in un ambito troppo personale per apparire veritiero. Per un concertatore avvezzo alla definizione di tematiche come quelle sopracitate, il passaggio a Mahler può rappresentare un vero e proprio salto nel buio; s'intende che non si vuol parlare di fenomeni qualitativi, potendo il direttore intelligente superare tale scoglio con facilità; quanto di possibilità di adesione concettuale a un etos, ad una cultura. In tal senso, le esecuzioni discografiche che Solti aveva fornito sinora di musiche mahleriane peccavano di un limite ben preciso: quello di considerare l'esperienza del musicista come strettamente aggregata proprio a quel mondo wagneriano che le è invece estraneo per disposizione naturale; e di fornirci, pertanto, splendide riproduzioni di un fenomeno non riproducibile e del tutto irrelato alla poetica originaria dell'interprete.
Particolarmente esemplificativa di questo stato d'animo e di questa sorta di tensione adialogica ci era parsa, a suo tempo, la realizzazione della Seconda sinfonia: esteriormente perfetta, lucidissima, prepotente, ma assolutamente estranea alle ragioni dell'Autore; quasi una propaggine di quella tematica wagneriana tanto cara a Solti, che fa pagare a caro prezzo a Mahler il dono di quella splendida magniloquenza, condannandolo al triste destino dell'epigonismo (è ovvio che, in tale prospettiva, fosse proprio il famoso Finale della sinfonia ad ergersi potente come un baluardo sonoro,  come capacità-limite di un dato mondo poetico, fino a cadere nell'inutile).
Nella prospettiva di una tale resa sonora, l'unico ancoraggio certo era, dunque, l'epigonismo, sia pure  ad uno smagliante livello. Merito di Solti appare, quindi, l'aver inteso, in questa Nona, i pericoli di  una visione del genere e di aver, conseguentemente,  dimostrato la capacità di afferrare il prosieguo logico di quell'esperienza nel totale superamento del Wagnerismo antecedente. «Totale» è forse un termine azzardato, d'accordo; e vedremo anche perché. Ma l'importanza di questa incisione mi pare nella capacità dimostrata dal concertatore di mutare l'angolazione prospettica nei riguardi del proprio oggetto di discorso: di rendersi conto, cioè, della necessità di rinnegare il criterio del livellamento dell'autore alla propria personalità. Operazione sempre deleteria e particolarmente indicativa di quel modus operativo che sembra oggi tipico degli interpreti espressi dall'attuale indirizzo tecnologico.
In tal senso, mi pare che questa concertazione  della Nona, comunque la si voglia giudicare sul piano della complessiva riuscita artistica, è ancora un fatto di cultura e non di consumo; un'operazione, dunque, da accogliere con la massima soddisfazione e con la speranza che la dialettica, in quanto entità di ricerca, non sia ancora da ammassare nel solaio delle esperienze dimenticate.
La definizione del cosmo sonoro tentata da Solti  nel I Movimento, Andante commodo, sembrerebbe invero convalidare l'ipotesi di una concertazione "epigonica", tanto arduo riesce al direttore strapparsi di dosso le voluttuose spirali di uno straussismo gonfio, abnorme, sincreticamente fossilizzato nell'acquisizione di una Veltannschauung proliferatrice di cellule malate. E sì che poche pagine come questo Andante commodo denunciano lo stato di  malattia cerebrale dell'Europa pre-bellica, di cui Mahler doveva fornire forse il ritratto più sconvolgente. Ma il punto è che in ogni momento di tale denuncia clinica, la morbosità del punto di partenza viene contestata e messa in discussione dal punto d'arrivo d'un razionalismo linguistico di allucinante esattezza. Lontano le mille miglia così dalla necrosi adialettica dello straussismo come dalle appendici tumorali dell'esperienza stilistica di Tristano.
Esperienza quasi irripetibile, questa; tale da farci guardare con una sorta di sospetto persino alle insospettate e indiscusse capacità «anticipatrici» della tematica mahleriana (quelle, è chiaro, che guardano direttamente all'Espressionismo e che Solti, in questo primo Movimento, sembrerebbe non aver afferrato nella sua interezza). Ciò ci porta, forse, a ridimensionare, per amor d'esattezza, l'ambito della nostra accettazione, come si diceva; e, tuttavia, per fortuna, i residui (patetici e pericolosi) dello straussismo soltiano si fermano qui. Quasi a suggerire  un'ipotesi che, per quanto azzardata sia, contiene in sé qualcosa di affascinante: che, nel lungo e doloroso commiato mahleriano dall'epopea tardo-romantica, il direttore ungherese abbia voluto insinuare il suo personale commiato da un modus di interpretazione,
Si diceva dell'elevatissima razionalità del procedimento linguistico di Mahler: essa trova, credo, proprio nell'Andante commodo della Nona la sua specificazione più netta; tanto più netta quanto più profetica, in maniera allarmante, di una liquidazione che coinvolge sia l'etos espressivo che la struttura stessa di tale formidabile pagina. È straordinario, infatti, come la saturazione dell'esperienza pre-espressionistica, che Mahler aveva già affermato dalla Quinta sinfonia e che aveva trovato la più perfetta emancipazione nella Settima e ne Il canto della terra, si stravolga qui nella fissità di prassi armoniche e ritmiche chiaramente anticipatrici, più che dell'atonalismo di Berg, addirittura dei nodi strutturali weberniani. E tutto ciò senza perdere la sua sconvolgente ambiguità; anzi, facendola, per ricchissimo contrasto dialogico, riemergere al livello di una prospettiva contestatoria e poliforme.
E' ovvio che tutto questo non ci riguardi per affermare le qualità profetiche del linguaggio mahleriano: lasciamo che vi si sbizzarriscano tutti coloro per i quali l'importanza di un compositore è determinabile in base alle influenze esercitate su altri. Qui è invece da stabilire proprio quel contrasto dialettico tra contenuti in liquidazione e strutture al cui livello essi vengono espressi, che mi pare il segno più profondo della grande inventiva dell'ultimo Mahler.
Di questo, che Luigi Rognoni ha chiamato un «arsenale di esperienze sonore» (tutto vi si mescola: politonalismo, scala pentatonica, ritmica frammentata, opposizione tra suoni gravi e acuti), Solti, si è detto, esplicita, in un certo senso le potenze ambigue. Ciò facendo garantisce alla pagina musicale un senso che ci pare estraneo alle più lineari e ortodossamente mahleriane concertazioni di un Walter e di un Horenstein: quello della compenetrazione degli opposti; una sorta di equivocità malsana, in cui, però, è possibile intravvedere la potenziale e, man mano, sempre più definita capacità di abbandonare l'enfatico straussiano iniziale in favore di una lettura più responsabile e svincolata dalla personalità.
Dalle battute iniziali cariche di turgore e scaturenti nel lancinante attacco I a piena orchestra al Finale del movimento, quella stupefacente «coda», in cui sembrano cadere ad uno ad uno tutti i puntelli del pericolante edificio armonico innalzato da Mahler, con estremo sacrificio, alla Secessione austriaca, per lasciare il posto a un filiforme ed irreale gioco contrappuntistico tra i legni, il corno e i contrabassi (batt. 376-390, «plötzlich bedeuten langsamer und leise»), Solti trova una misura conturbante di quello che sarà il suo futuro Mahler e lascia, dunque, un documento impreciso per equivocità ed eterodossia concettuale, ma, tuttavia, attraente nella sua discontinuità.
Questi i limiti più notevoli dell'esecuzione (limiti, come si è visto, riscattabili in virtù del potenziale istinto di rinnovamento, ma sempre limiti); poiché dal II Movimento in poi, reso con eccellente evidenza ritmica e giusta adesione intellettuale, il direttore mi pare imbrocchi la strada giusta, quella preparata attraverso i conati dell'Andante commodo; sino alla splendida conclusione dell'Adagio, che viene presentato in prospettiva fonica attanagliante: di una cupezza quasi livida, macerante, più drammatica che patetica, forse, in una visuale lontana dalle letture storiche mahleriane, ma non per questo meno indicativa del suo travaglio psichico ed intellettuale.
In conclusione, un Mahler di tutto rilievo, anche se discutibile; ma forse proprio per questo. Attendiamo ora da Solti quella lettura della Settima che ancora manca al nostro bagaglio di esperienze mahleriane (la vecchia incisione di Rosbaud è troppo difettosa tecnicamente per poter servire da pietra di paragone con l'ideale interpretazione che ci siamo formati nella mente). Ci sembra che il suo nuovo modus mahleriano  possa autorizzare l'attesa.
La Decca ha servito il suo direttore con una registrazione impeccabile, al più alto livello di resa sonora, tale da inserirla tra le sue più riuscite produzioni commerciali. Un plauso anche per l'elegante presentazione dell'astuccio e per le note alla Sinfonia, una volta tanto realizzate con serietà d'intenti e non nella consueta maniera approssimativa e pasticciona cara ai collezionisti di dischi (del resto, la firma è di Deryck Cooke e ciò mi pare basti).
Aldo Nicastro
("Disclub" 26, anno VII, marzo-aprile 1968)

domenica, febbraio 11, 2024

Il requiem tedesco di Johannes Brahms

Johannes Brahms (Silhouette)
L'ascolto disinteressato della musica da parte di chi 
non sia legato ad essa da obblighi professionali (insegnamento, critica etc.) si può configurare nella sua forma meno frivola e distratta come una appassionante e serissima avventura. O, per meglio dire, come richiesta sempre insoddisfatta e solo parzialmente appagata di una esecuzione definitiva, se pur l'aggettivo ha un senso in questo campo. Da questa ricerca continua nascerà l'esigenza di rinnovati contatti col brano e con l'autore oggetto dell'interesse. Nel caso di testi che implichino un particolare impegno di realizzazione, alle ripetute esperienze dal vivo si sostituisce poi efficacemente il disco e ci sembra sia proprio questo uno dei suoi più decisi connotati in quanto strumento di diffusione della cultura, anziché mero trastullo edonistico.
Il disco è, infatti, da considerare anche e soprattutto come un'istantanea, una foto più o meno riuscita di una certa esecuzione che altrimenti sarebbe per l'ascoltatore  o fruitore di musica difficilmente raggiungibile. Caso esemplare e tipico quello di esecutori ormai non più attivi, la cui voce ci giunge ancora attraverso il disco.
È proprio questa provvisorietà, questa continua diversità di proposte a costituire non solo il fascino dell'ascoltare musica incisa ma a darne una giustificazione (l'unica?) validissima.
Di fronte a testi di alto valore, prendere conoscenza di diverse letture, di differenti accostamenti interpretativi diviene per l'ascoltatore una necessità ai fini di quell'avventura o ricerca di cui parlavamo che apparirà sempre più chiaramente come la ricerca di un'ideale pietra di paragone o di un paradigma ideale che di volta in volta potrà cambiare.
In questo esercizio del gusto che non esclude nella sua serietà, un aspetto di «lusus» o superiore giuoco, si procederà ogni volta ad una scelta tra le varie proposte finché il campo non sia sgombro, il più possibile in attesa dell'unica, definitiva «offerta››.
Queste considerazioni sommarie ci suggerisce il recente ascolto di tre versioni ugualmente autorevoli del Requiem tedesco. Brahms come è largamente noto, con la più vasta delle sue composizioni per coro e orchestra, volle onorare la memoria di coloro che più gli furono vicini: Schumann e sua madre. I primi tre dei sette movimenti di cui consta la partitura furono eseguiti il primo dicembre 1867 a Vienna sotto la direzione di Johann von Herbeck, ma la prima ufficiale si ebbe nel Duomo di Brema e fu un avvenimento nella vita musicale tedesca in quanto tutti i musicisti più noti e autorevoli erano presenti. Dirigeva Karl Rheinthaler. Il 18 febbraio 1869, la gloriosa orchestra del Gewandhaus di Lipsia, guidata da Carl Reinecke eseguiva il Requiem nella sua forma definitiva e cioè con l'aggiunta del quinto movimento per soprano solista e coro (Ihr habt nun Traurigkeit), più specificamente dedicato alla memoria della madre del compositore.
Se si pensa che la I Sinfonia fu eseguita nel 1876 (anche se i primi appunti risalgono al 1862) e che dei grandi lavori orchestrali solo il I Concerto per piano (1861) precede il Requiem, quest'ultimo ci appare veramente come una specie di grande spartiacque della produzione brahmsiana (è l'opera 45), una sorta di riepilogo di tutti i motivi tratti da una lettura assidua delle sacre scritture, quella che ispirò lavori giovanili come l'Ave Maria (op. 12), il Canto dei Morti (op. 13), Marienlieder (op. 22), i Mottetti (op. 29) e i Cori Religiosi (op. 37). E' un riepilogo, ma anche una prefazione ai grandi lavori sinfonici della maturità cui ci sembra fornisca una linfa segreta. Non è forse l'ultimo tempo della IV sinfonia una grande danza macabra, ancora una volta  una meditazione sulla morte? Ed è significativo che tra le ultime pagine di Brahms, tra le sue più alte ed accorate, vi siano i Quattro Canti Gravi, scritti alle soglie della morte, nel 1896, i quali riecheggiano il Requiem come tono e «Stimmung» della musica e del testo, costituendone una specie di folgorante epilogo ideale. Nei quattro canti tutte le ragioni del Requiem sono ribadite con perentorietà e nettezza di accenti.
Il Requiem si situa quindi in un punto chiave dell'itinerario brahmsiano e ci è sempre sembrato (non si vuol qui fare una questione di valore assoluto a dirimere la quale non ci sentiamo autorizzati né competenti) una grande meditazione individuale sulla morte, sette pagine del giornale intimo di Brahms, per noi più significative e moderne che non le amplificazioni a volte puramente  retoriche delle sue sinfonie. E come se alla lettura ripetuta di quei testi dell'Antico e Nuovo Testamento, trascelti personalmente da Brahms, quindi una sua antologia ideale, le parole solenni e scabre del tedesco di Lutero si siano lentamente alonate di musica e risuonando, come in una cassa armonica, nello spirito del lettore-musicista abbiano sprigionato quella musica che in esse  era latente. il fraseggiare sommesso del coro iniziale Selig sind die da Leid tragen, la virile e stoica implorazione del baritono Herr, Iehre doch mich, sono due esempi  di questo lievitare impercettibile in canto del dettato luterano. Miracolo che si rinnova sugli esempi altissimi delle Passioni di Schütz, e di Bach. E sono sempre parole gravissime che richiamano all'uomo il problema ultimo ed unico, quello della Morte, il solo che conti veramente. E tutto il tono del Requiem brahmsiano, che non ha  niente, come si sa, di chiesastico e rifiuta per sua natura ogni sovrastruttura liturgica e rituale, è un tono sommesso e mormorato, almeno nelle sue parti più alte che sono poi preponderanti: una meditazione lirica ed intima.
E' l'io ripiegato in silenzio su se stesso che liberamente sceglie i suoi testi di meditazione. Per questo soprattutto il Requiem è giustamente stato definito da Brahms tedesco, cioè protestante nel senso più autentico del termine. Non un sospetto di pompa chiesastica o concertistica, mai un'ombra di enfasi. Questo Requiem si  vorrebbe veramente ascoltarlo da soli, nel proprio studio,  tendendo al massimo l'arco dell'attenzione, senza distrazioni esterne.
Pur aborrendo i ridicoli estetismi in cui esigenze del genere di solito naufragano, vorremmo veramente sentir sempre questo Requiem in un ambiente adatto (che non sarà poi necessariamente una chiesa) e quindi anche ascoltando una edizione discografica sarà questo aspetto dell'ambiente con tutti i valori atmosferici connessi, che si imporrà come preminente.
Se scegliamo dunque tre edizioni del Requiem tra le varie disponibili sul mercato e le proponiamo ad un ascolto comparativo sarà il caso di premettere che, proprio in base al criterio sopra esposto, due di esse ci sembrano letture o proposte magari diverse come accentuazione del tono fondamentale, ma comunque centrate (Fritz Lehmann con l'Orchestra Filarmonica di Berlino e Coro di S. Edvige, Berlino, per la D.G.G. e Rudolf Kempe a capo degli stessi complessi per la Voce del Padrone); la terza, viceversa, costituisce un esempio tipico di esecuzione formalmente impeccabile ed esteriormente smagliante ma in sostanza mancata e fuori centro (Otto Klemperer, con l'Orchestra e Coro Philharmonia di Londra, per la Columbia).
Sia Lehmann che Kempe sono due direttori «modesti», vogliamo dire non «divi»; non provocano, a  quanto si sa, risse ai botteghini, né «tutti esauriti» con tre mesi di anticipo sul concerto. Sono due onesti e solidi professionisti della direzione di orchestra che hanno i loro autori preferiti o approfonditi ed ovviamente non  potrebbero dirigere «tutto».
Ebbene, sia l'uno che l'altro, e soprattutto Kempe, che purtroppo è servito da una incisione non eccelsa, ci danno una loro lettura del Requiem così pudica e schiva da ogni effetto e colore estraneo da non far rimpiangere altre clamorose esecuzioni alle quali lo scrivente ha avuto la ventura di assistere (von Karajan, Perugia, Settembre 1952 e Schippers, Spoleto, Luglio 1961). La sensibilità di Kempe aderisce più immediatamente al tono elegiaco della partitura; centra con pronta immedesimazione il suono dell'orchestra e sfuma e dosa le sonorità con mano delicatissima. Al suo comando i cori di Berlino, stupendi per la perfezione dell'intonazione e per la precisione ritmica, assumono uno smalto particolare, un colorito tipico, il magico «Brahms-Klang». L'orchestra accompagna con discrezione ma è continuamente presente e si decanta in pochi preziosi timbri ogni volta che deve incastonare la voce del solista. Riuscita suprema di questa versione del Requiem è il quinto movimento nel quale Elisabeth Grümmer canta con un fervore ed un'intensità che neppure la Schwarzkopf, nell'edizione Klemperer, riesce ad eguagliare. Kempe, volendo riassumere con un solo aggettivo le nostre impressioni, ci dà un Requiem «viennese» più che «amburghese» o nord-tedesco. Una meditazione dolorosa e disadorna sul tema delle Cose Ultime, una elegia mesta e dolcissima. Lo immaginiamo interprete felice più della Seconda sinfonia brahmsiana che non della Prima.
Lehmann è un solido «Kapellmeister» e sotto la sua bacchetta la stessa orchestra e lo stesso coro suonano disciplinatamente ma con risultati diversi.
Non si tratta tanto di una questione interpretativa (si potrà dire che il Requiem di Lehmann è un po' più mosso e drammatico, meno chiaroscurato, con colori più netti e contrasti dinamici più risentiti) quanto di una diversità impercettibile di accento; al tedesco fluente e cantabile del viennese-monacense Kempe (parliamo per metafora, s'intende, perchè Kempe è nato notoriamente a Dresda), Lehmann oppone un suo tedesco settentrionale tutto esplosive e spigoli, più duro e gotico: un Brahms amburghese. Ma la meraviglia dell'edizione D.G.G. è costituita dall'ambientazione. Non sappiamo se le riprese abbiano avuto luogo in una chiesa ed in fondo è un particolare trascurabile (l). Non esiste comunque a quanto ci risulta una edizione più perfetta dal punto di vista del suono: orchestra e coro sono calati in un ambiente adeguato che ne semplifica le sonorità ma come ovattandole in una penombra dalla quale volta a volta vediamo e sentiamo affiorare e snodarsi le membrature polifoniche e in cui si spengono lentamente le ultime eco dei gemiti elegiaci (finale del quinto e settimo movimento). Eccezionale ed intonata all'interpretazione complessiva è la prestazione di Maria Stader; un po' troppo melodrammatico è Otto Wiener, dal timbro di voce poco brahmsiano. Le due edizioni che abbiamo molto rapidamente esaminato ci sembrano, dicevamo, le più ragguardevoli sotto il profilo della autenticità e della immedesimazione interpretative e la preferenza assegnata alla prima delle due sarà solo questione di inclinazione e gusto individuali.
La più recente edizione di Otto Klemperer ci pare, invece, un caso di singolare insensibilità interpretativa e ciò sia detto con tutto il rispetto per il grande direttore tedesco, animatore della gloriosa Kroll-Oper e bersaglio insieme a tanti altri musicisti della matta bestialità nazista.
In una intervista, Klemperer dichiarò di non aver più avuto occasione dal 1931 di dirigere la Messa in si minore di Bach perchè né in America, né in nessun altro dei paesi dove è vissuto esule, aveva trovato un complesso che gli permettesse di realizzarne una versione per lui soddisfacente. Fortunatamente da alcuni anni Klemperer ha trovato questo complesso a Londra nella Orchestra e nel Coro Philharmonia di cui è direttore stabile dal '59 e con cui ha già realizzato incisioni memorabili del Fidelio e della Passione Secondo S. Matteo per iniziativa della His Master's Voice. Ma questo Requiem Tedesco, per il quale il grande direttore si avvale di due solisti valorosissimi (Schwarzkopf e Fischer-Dieskau) e degli stessi complessi, pur essendo tecnicamente perfetto e splendidamente inciso ci delude quasi completamente per quanto riguarda quella autenticità, che in un testo del genere ha una particolarissima e quasi primaria importanza.
L'orchestra e il coro sono sempre troppo brillanti e tirati al lucido, sono sempre troppo in primo piano. Mancano le mezze tinte e lo stesso Klemperer ci sembra quasi svogliato, disinteressato. Elisabeth Schwarzkopf si adegua a questo tono troppo mondano e «da sala di concerto» con una prestazione ineccepibile e gelida. In questi ultimi anni, la grande cantante dà l'impressione di essere sempre più spesso «la Schwarzkopf» qualsiasi cosa canti, e di porsi sempre meno spesso il problema dell'interpretazione. Resta difficile distinguere la sua interpretazione in questo Requiem da altre sue famose come ad esempio la Marescialla o la Contessa. La stessa preziosità nel fraseggio, la stessa perfezione puramente vocalistica senza che si giunga ad una individuazione. Significativa di questa impostazione data da Klemperer alla sua versione del Requiem e la diversa intensità con cui reagisce il grande Fischer-Dieskau che aveva già partecipato alla realizzazione di Kempe con un calore ed una intensità trattenutissimi nei suoi due interventi (terzo e sesto movimento). Con Kempe, Fischer-Dieskau riesce a mantenersi sulla linea del suo Brahms (quello dei vari dischi di Lieder da lui dedicati al Maestro) tutto chiaroscuri, sempre commosso e teso, mai retorico, tutto intimo e pudico.
Sotto la guida di Klemperer, pur al livello di una prestazione altissima, perfino un interprete della sua sensibilità suona più melodrammatico e sostanzialmente assente, tutto esteriore.
Siamo spiacenti di aver dovuto fare rilievi negativi nei confronti di un grandissimo artista che ammiriamo come il più grande interprete beethoveniano vivente e da cui attendiamo l'incisione di almeno un'opera di Mozart che sia degna della tradizione di Walter (il Flauto Magico?) ma la non riuscita di questa incisione del Requiem ci conferma nella nostra idea dell'incisione discografica come fotografia, qualcosa di aleatorio e transeunte che, a causa di fattori imponderabili, può non riuscire a cogliere la effettiva realtà musicale e non meramente sonora di un testo.
(1) La registrazione del Requiem diretta da Kempe ebbe luogo in una chiesa di Berlino, nel luglio 1955.
Giulio de Angelis
("Disclub" 3, anno I, 3 dicembre 1963)